Laboratorio è un contenitore che riunisce link a testi, podcast e/o materiale video che hanno colpito la mia attenzione nel mese precedente (più o meno). A volte i contenuti sono legati alla precedente lettera di LAB, anche se non abbastanza legati da essere inclusi nelle sezioni finali.
Laboratorio esce il terzo mercoledì del mese; oggi è diviso in due sezioni: Leggere e Guardare. Alla fine c’è un indizio sul libro LAB del prossimo 5 giugno.
Un avvertimento: non sono un’insider, soltanto una lettrice curiosa.
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📗 LEGGERE
The Woman in the Well - Catherine Lacey | New York Review of Books
Poco tempo fa ho letto nella raccolta di stroncature Meglio star zitti? la ridicola opinione di Giovanni Raboni1 sull’opera di Alba de Céspedes (opinione ridicola per la sua superficialità piena di spocchia, non perché negativa), dunque questa recensione2 di Quaderno proibito firmata da Catherine Lacey è stata un balsamo per la mia collera.
Rimane sempre l’impressione che gli unici critici italiani del secolo scorso in grado di esaminare il lavoro delle scrittrici senza rivelare tutta la propria ottusità siano Emilio Cecchi e Cesare Garboli. Non può sorprendere poi che Goliarda Sapienza abbia trovato la prima affermazione in Francia e che il marcato ritorno di interesse per Natalia Ginzburg sia stato spinto dal mondo anglofono.
Cocaine, Literature and Culture, 1876-1930 - Douglas R.J. Small | Bloomsbury
Mi incuriosisce la trattazione del consumo e dell’abuso di droga nella letteratura prima degli anni ‘70; qualche mese fa ho scritto del romanzo I sensi truccati (1962) di Paola Chiesa, il cui protagonista-narratore è tossicodipendente. Il libro di Small, che si può scaricare gratuitamente perché è open access, tratta nello specifico dell’impatto culturale e letterario della cocaina nei trent’anni immediatamente precedenti e successivi al 1900: anestetico per le prime operazioni di chirurgia estetica e per i tatuaggi, stimolante (non può mancare un capitolo dedicato a Sherlock Holmes), fantasma razziale.
Les traces du Mékong dans l’écriture de Marguerite Duras - Doan Bui | Le Nouvel Obs
Lo stile ellittico di Marguerite Duras è uno dei più riconoscibili della letteratura francese. E se fosse influenzato dal vietnamita, la lingua che la scrittrice parlava durante la sua infanzia coloniale? E cosa è rimasto di Duras in Vietnam?
Dark Matter - Meg Bernhard | Hazlitt
Postsecret dev’essere uno dei pochi luoghi tuttora non monetizzati di Internet. Bernhard intervista il fondatore, Frank Warren, e alcune persone che hanno mandato i loro segreti al sito, mentre pensa al ruolo del segreto nella propria vita.
Nigeria Has a Bookshop Problem - Chidinma Iwu | Dirt
Preferisco di gran lunga i negozi di libri usati alle librerie, per la componente di casualità che manca del tutto nelle seconde. In Nigeria, per ragioni complesse, ci sono pochissime librerie, così sono i negozi di libri usati ad avere un peso predominante.
Disambiguation, a Tragedy - Nan Z. Da | N+1
Densissimo pezzo sulla letteratura cinese, o forse dovrei dire: sulle letterature cinesi, che non sono certa di aver del tutto capito a causa della mia limitata familiarità con la storia della diaspora cinese negli Stati Uniti (solo sincerità qui su L’altra biblioteca!). Mi viene da accostarlo a China’s National Amnesia, l’estratto dell’ultimo libro di Yan Lianke apparso su The Dial.
Storia indiscreta di Solaris in Italia - Luigi Marinelli | L’indiscreto
C’è sempre una storia dietro la traduzione di un libro, e se il libro proviene da una lingua poco praticata in Italia, in questo caso il polacco di Stanisław Lem, le storie sono molteplici e si attorcigliano.
It's Not Only Human Stories Worth Telling - Elisha Cohn | Public Books
Cohn esamina tre libri di Sigrid Nunez che hanno al centro il rapporto affettivo tra le varie voci narranti e un animale domestico — un cane ne L’amico fedele (Garzanti, traduzione di Stefano Beretta), un gatto in Attraverso la vita (Garzanti, traduzione di Paola Bertante) e un pappagallo in The Vulnerables.
I’ll Be Your Mirror - Emerson Goo | Notebook
Ryūsuke Hamaguchi è uno dei miei registi preferiti in attività. Ho apprezzato questa lunga analisi del ruolo che nei suoi film assegna alla disabilità.
🥝 GUARDARE
Apolonia, Apolonia - Lea Glob | RSI
Alcune artiste francesi che associo per età e soggetti: Inès Longevial, Nathanaëlle Herbelin, Hélène Delmaire e Apolonia Sokol. La regista danese Lea Glob ha seguito per tredici anni proprio Sokol, traendone un ritratto che passa dalla ricerca di un percorso artistico personale dopo gli studi presso le Beaux Arts alla lotta per salvare il teatro autogestito Lavoir Moderne, dagli aspetti più loschi del mercato dell’arte (riassunti dalla figura del famigerato Stefan Simchowitz) alla perdita di affetti importanti (l’artista e attivista Oksana Shachko, la nonna).
Il documentario si può visionare gratuitamente sul sito della Radiotelevisione Svizzera, purtroppo doppiato in italiano (non dubito che verrà portato in Italia dai cinema indipendenti, com’è già stato fatto il mese scorso dal benemerito Carbone di Mantova). Qui sotto il trailer.
E LAB 53?
Una fotografia proveniente dal celebre progetto di Alessandra Sanguinetti dedicato alle cugine Guillermina Aranciaga e Belinda Stutz — progetto che ha ispirato alla scrittrice argentina Alejandra Kamiya il racconto I resti del segreto, incluso nella raccolta Anche gli alberi caduti sono il bosco (Ventanas, traduzione di Serena Bianchi).
Eccola, uscita nel 1987 in occasione della serializzazione televisiva di Nessuno torna indietro:
Non sono – né, d’altra parte, mi vanto di non essere – un esperto della narrativa di Alba De Céspedes. Ricordo però di aver letto, quando uscì, Dalla parte di lei, che nella mia intransigente giovinezza mi parve un libro irrimediabilmente dozzinale, nonché (in età più matura e dunque più indulgente) La bambolona, quasi subito tradotto in film dallo stesso Franco Giraldi che si è ora applicato alle vicende di Nessuno torna indietro.
E soprattutto ricordo di aver conosciuto lei, l’autrice, a un ricevimento in casa Mondadori e di essere rimasto colpito dal suo portamento quasi regale che la rendeva in tutto e per tutto simile, da un punto di vista comportamentale e mondano, a scrittrici di caratura letteraria decisamente più elevata come le compiante Anna Banti e Maria Bellonci.
Insomma, credo d’essermi chiesto, in quell’occasione: come si fa a distinguere “veramente” una scrittrice popolare (o di massa o di consumo) da una scrittrice tout court, se l’una e l’altra si vestono, parlano e si muovono nello stesso modo e pubblicano i loro libri presso lo stesso editore, non solo, ma anche nella stessa collana?
La domanda, ovviamente scherzosa, ne nasconde tuttavia una piuttosto seria e complessa: esiste ancora, oggi, una netta linea di demarcazione fra letteratura, diciamo così, “alta” e letteratura popolare? Un critico di grande attenzione e valore, Romano Luperini, sostiene che dal 1956 ad oggi (mi manca il tempo, adesso, di chiarire, anzi di capire, perché proprio dal 1956) la strategia di «unificazione del mercato e della produzione» da parte dell’industria editoriale ha progressivamente cancellato «i confini che un tempo dividevano la letteratura d’arte dalla paraletteratura o Trivialliteratur».
È probabile che Luperini abbia ragione; e che anche questa scomparsa o invisibilità di confini contribuisca a rendere così difficile e paradossale il compito della critica, che non sa più se deve (o, almeno, se le è lecito) giudicare in nome dell’“arte” o se deve invece limitarsi a certificare l’impatto del prodotto sul pubblico, ovvero, in parole povere, il suo successo.
Ma resta, forse, un sia pur esile e fragile filo d’Arianna al quale appigliarsi, ed è la quantità d’artificio, di malafede, di contraffazione, di volontà malriposta e “perversa” riscontrabile volta a volta nell’oggetto, cioè nella scrittura. È vero che letteratura d’arte e letteratura di consumo sono, ormai, due grandi vasche comunicanti; ma è anche vero che i passaggi forzosi da una vasca all’altra (e, si badi, in un senso come nell’altro) lasciano tracce evidenti, striature incancellabili e ripugnanti sulla pagina.
Ebbene, per tornare alla signora De Céspedes, a me sembra, per quanto me ne ricordo, che nei suoi libri non vi siano tracce del genere. Forse perché appartengono, di fatto e idealmente, a “prima del ‘56”, i suoi romanzi sono degli onesti, leali, autentici romanzi di consumo; e la loro tranquilla dozzinalità, il loro caratterizzarsi senza trucchi e senza remore come Trivialliteratur, che mi infastidivano tanto quando avevo diciott’anni, tendono ormai ad apparirmi come pregi.
Non certo la prima, cfr. il pezzo di Joy Castro per la Los Angeles Review of Books e le altre uscite nel frattempo, per esempio sul New Yorker.