LAB 55: Chi sono le ragazze di Milena Milani?
Quattro romanzi per seguire Jules e le altre tra città, umori e amori.
Come Le vite dei nostri ultimi tycoon, anche l’email di oggi è molto lunga; per evitare che sia troncata, può essere meglio aprirla nel browser cliccando sul titolo. Buona lettura.
Prima di tutto: chi era Milena Milani?
Il suo nome oggi è soprattutto associato al suo secondo romanzo, La ragazza di nome Giulio (1964, Longanesi), processato per oltraggio al comune senso del pudore.
Milani nasce a Savona “una vigilia di Natale qualunque”, nel 1917, e lì morirà nel 2013. Il padre, proveniente da una famiglia meno agiata di un tempo, è un agronomo anarchico e antifascista, che però non gestisce la famiglia con una mentalità altrettanto aperta; la madre, di classe sociale più umile, è cattolica praticante. Littrice di poesia iscritta al GUF, si trasferisce a Roma per studiare a La Sapienza; nella capitale entra in contatto con gli intellettuali che frequentano la terza saletta del caffè Aragno, tra i quali ci sono Vincenzo Cardarelli, che sarà il suo mentore, e Giuseppe Ungaretti, futuro premio Nobel dai rapporti ambigui con il regime. Nel 1943, dopo un’azione dimostrativa, le viene fatto capire che è meglio lasciare Roma, così si sposta a Venezia, dove incontra il collezionista Carlo Cardazzo, fondatore della Galleria del Cavallino, che diventerà il suo compagno di vita. In questo periodo, Milena Milani continua a scrivere poesie e si avvicina alla prosa in forma breve, pubblicando per le Edizioni del Cavallino (legate alla Galleria) la raccolta L’estate.
Da L’angelo nero e altri ricordi (1984, Rusconi).
Nel dopoguerra, la casa editrice Mondadori istituisce un premio per pubblicare un esordio letterario. Nella cinquina finale arriva anche Il sentiero dei nidi di ragno di Italo Calvino, ma sarà l’opera prima di Milena Milani a vincere: Storia di Anna Drei.
Storia di Anna Drei (1947, Mondadori)
Immaginiamo di trovarci a Roma, durante un pomeriggio invernale all’inizio del 1946. Davanti al cinema Barberini1, una sconosciuta interpella all’improvviso la narratrice del romanzo:
“Se lei va al cinema, verrei anch’io, tanto sono sola”.
Si presentò:
“Mi chiamo Anna Drei”, disse.
La guardai, mi piacque, così entrammo. [...]
Quando uscimmo era tardi, andammo in una rosticceria proprio sulla piazza, mangiammo carne e pastasciutta; Anna Drei prese anche una mela cotta.
Di sfuggita io la guardavo, ma senza eccessiva curiosità, come si fa con qualcuno che si conosce da lungo tempo. Non pensavo neanche, non cercavo di sapere niente di lei, mangiavo e riprendevo a mangiare, oppure bevevo un po’ d’acqua dal mio bicchiere. Anche Anna Drei era tranquilla, il viso chiaro composto, i capelli lisci dentro il berretto, il colletto del cappotto rialzato, aveva occhi scuri, belle mani con le dita sottili.
L’incontro tra le due giovani sancisce l’inizio del romanzo; non sono conoscenze comuni o passioni condivise a metterle in contatto, soltanto un’occasione e una scelta fulminea. Della narratrice non sapremo mai il nome, e anche “Anna Drei”, a un certo punto, inizia a sembrare artefatto.
La giornata si conclude con la narratrice ospitata dalla sconosciuta nella sua stanza, in una pensione vicina; il giorno dopo, nel corso di una passeggiata, avviene questa conversazione:
“[…] ho deciso di finirla.”
“Finirla con che cosa?”
“Con la vita, perbacco” esclamò Anna Drei fermandosi di colpo, “perché lei” disse, afferrandomi per la manica “perché lei non ne sarebbe stufa, per caso?”
Scossi il capo. “No, non sono stufa, mi piace stare al mondo.”
Anna Drei si mise a ridere. “Quanti anni ha?” mi chiese. “Io ne ho venticinque. È come se ne avessi cinquanta.”
Non risposi, la guardai. Il suo viso mi turbò: certamente mentiva.
“Non mento”, affermò essa indovinando il mio pensiero, “ma se non mi crede, faccio a meno di parlare. Del resto” disse, cambiando tono, volubilmente “lei è troppo giovane, non mi può capire. Non ho amiche, ma potrei aver lei.”
L’intensità perturbante di questa sconosciuta mi ha ricordato un altro personaggio femminile magnetico e instabile, la Nadja di André Breton; a differenza del grande surrealista, però, Milena Milani concede alla sua creatura (fittizia) la facoltà di parlare a chi legge senza essere mediata. Sulle centoquindici pagine effettive del romanzo, circa cinquanta sono occupate dalla voce di Anna Drei, che prima offre alla narratrice un suo manoscritto da leggere, poi le scrive alcune lettere.
Giosetta Fioroni
Attraverso il testo autografo, Milani dimostra la sua capacità di differenziare le modalità espressive delle due protagoniste: la concretezza essenziale dello sguardo della narratrice ha poco in comune con il lirismo manierato della sconosciuta.
Sì, è una donna che scrive. Una donna come poche, forse come nessuna. Nessuno mi toglie dalla mente che io, Anna Drei, sia una donna eccezionale. È inutile che la gente rida principiando queste righe, che dica: costei è pazza o perlomeno presuntuosa. È inutile. So io quello che voglio dire.
Nacqui da povera gente, è vero, ma potevo essere nata da un re, da un uomo potente e ricchissimo e sarebbe stato lo stesso. Ebbi nel mio animo visioni sconfinate, desideri di altezza, un qualcosa di straordinariamente grande come l’aria che è intorno alla terra. Penetrare i misteri del mondo, questo cerchio chiuso, come vorrei farlo con le mie forze. Cercherò di raccontare quello che fui, quello che seppi di me, creatura misteriosa, nata, vivente ancora, prima che sia troppo tardi. Perché io voglia questo no so, ma sento che non mi piace passare inosservata, trascorrerei giorni come tanti fanno, accontentandosi di cose passeggere.
Io che studiai il cielo, che lo sentii dentro di me.
Io che amai il sole, il mare, questi uomini fatti anche di carne.
Come Nadja comincia con la domanda “Chi sono io?”, così Anna Drei nel suo manoscritto si concentra sull’indagine di se stessa. La solennità un po’ polverosa del suo tono sostenuto tradisce letture del secolo precedente, non ben digerite da una persona ancora giovane e che forse scrive da poco, magari per ricucire una scissione interiore. Racconta Anna Drei: “allora io parlavo a me stessa”, riportando dialoghi tra una se stessa “celestiale” e l’altra, sensibile agli istinti della sessualità. Quando aggiunge “io amo Anna Drei, io l’ho costruita”, afferriamo l’indizio nascosto nel suo cognome inconsueto: Anna Tre, dolorosa fusione di due frammenti disparati, “la fantasia di un cervello che soffre, l’immaginazione di una mente malata”.
Molte persone preferirebbero allontanarsi, per paura o per istinto di autoconservazione. La narratrice, invece, nel corso del romanzo abbandona l’alloggio che condivide con Mario, l’uomo a cui è legata da una relazione tormentata, per trasferirsi da Anna. Milani non descrive mai atti di intimità fisica tra le due donne, tuttavia è impossibile non capire la valenza simbolica di certe scene; del resto, in caso rimanga qualche dubbio, anche l’ex convivente si sente sostituito dalla sconosciuta.
La risoluzione del romanzo deriva dallo scontro sotterraneo delle inquietudini dei tre personaggi, che finiscono per erompere in superficie: Anna Drei si rivelerà essere una donna sofferente ma capace di manipolazioni, che, allo stesso tempo, forse ha tentato di salvare la narratrice da un destino non difficile da intravedere nella violenza fisica di Mario.
Nelle vicende della narratrice e della sconosciuta germinano i primi semi dei romanzi successivi di Milena Milani: personaggi femminili solitari, che si tengono da parte e che vengono messi da parte, dotati di un’emotività a tratti schiacciante e capaci di usare gli altri per i propri scopi.
La ragazza di nome Giulio (1964, Longanesi)
Se l’ambientazione di Storia di Anna Drei è la Roma spettrale dell’immediato dopoguerra, per il suo secondo romanzo Milena Milani sceglie tre paesaggi urbani diversi, appena prima, durante e dopo la guerra: Perugia (1938), Senigallia (1940) e Venezia (dal 1942 in avanti).
Tra il primo e il secondo romanzo passano diciassette anni — interrotti dalla pubblicazione nel 1954 di Emilia sulla diga, una raccolta di racconti — tuttavia già nel 1952 compare su Fiera Letteraria un racconto intitolato Una ragazza di nome Jules2, a testimoniare la lunga gestazione dell’opera.
Nel novembre 1963, muore all’improvviso Carlo Cardazzo, compagno di vita e grande amore della scrittrice (che a lui dedica tutti i suoi libri). Oltre a questa sofferenza privata, Milani cambia editore, passando da una sempre più indifferente Mondadori a Longanesi.
Appena pubblicato, La ragazza di nome Giulio diventa subito uno scandalo.
Perché no, del resto? Poco prima, Luchino Visconti ha subito la censura per la franchezza dei temi omosessuali presenti nell’opera teatrale di Giovanni Testori, L’Arialda, e nel suo capolavoro, Rocco e i suoi fratelli; poco dopo, un’inchiesta apparsa nel giornale scolastico del liceo Parini di Milano, incentrata sulla domanda “Che cosa pensano le ragazze d’oggi?”, farà scattare i benpensanti.
In questo panorama, Milena Milani ha scritto un romanzo dedicato a una ragazza che cerca se stessa attraverso il corpo e attraverso il sesso, e ha piena consapevolezza di ciò che ha scritto, come ricorda nella prefazione alla successiva edizione Rusconi del romanzo:
Quel personaggio incandescente che era la ragazza Giulio mi faceva paura, perché mi ero accorta che stavo precorrendo i tempi, e inoltre sentivo che per molta gente sarebbe stato motivo di scandalo, e di vergogna.
Jules inizia a parlarci quando ha ormai ventiquattro anni; il romanzo segue la sua formazione emotiva, sessuale e intellettuale per spiegare la violenza del suo gesto finale, anticipato fin dall’incipit:
Da molto tempo io avevo deciso questa cosa.
L'avevo decisa, ma non lo sapevo; come del resto non sapevo nemmeno che razza di cosa era. Io continuavo a fare quello che fanno tutti, come mangiare, dormire, vestirmi, passeggiare e parlare e anche innamorarmi.
Il venticinque agosto di quest'anno è successo che io ho capito questa cosa. Racconterò tutto di questo venticinque agosto. È una giornata che è stata lunga, piena di avvenimenti. Può darsi che questo racconto sul venticinque agosto di quest’anno mi occupi molto tempo.
Io concepisco le cose brevi, che si risolvono con facilità. Le conclusioni ritardate mi hanno sempre fatto rabbrividire.
Questa volta non so se troverò una soluzione.
Milani le assegna un marchio di Caino: un nome da ragazzo, che le viene dal padre anglofrancese morto quando lei ha appena due anni. Sua madre, che rimane legata al ricordo del marito, non è in grado di prendersi davvero cura della figlia, che cresce circondata dalla negligenza affettiva comune in certe fasce alte della borghesia.
Per esempio, la donna non si rende conto delle molestie che la figlia subisce da parte della loro governante, Lia. Talvolta questo rapporto viene descritto come un amore o un’iniziazione omosessuale; per quanto mi riguarda, preferisco evitare l’uso di certe definizioni per indicare gli atti di una persona di trent’anni nei confronti di una persona di appena tredici3.
Per Jules si tratta di un’esperienza confusa: il piacere derivante dai gesti di Lia convive con un evidente disgusto per la sua persona (i seni della donna sono descritti come “mucchietti di carne”; Jules piange ed è sgomenta). La decisione materna di cambiare città, sebbene abbia radici egoistiche, per la ragazzina è un sollievo.
A Senigallia, altre esperienze sessuali segnano Jules: nel legame con Amerigo, un giovane meccanico fidanzato con la domestica di casa, trova spazio forse una dose di invidia per ciò che Jules percepisce come i rapporti amorosi più semplici accessibili ai membri delle classi sociali subalterne; con il segretario Orlando della locale sezione fascista, invece, Jules subisce per la seconda volta la coercizione sessuale di un adulto, di nuovo tratteggiata da Milani con una chiarezza lontana da semplificazioni.
A questo proposito, è il momento di menzionare il ruolo giocato dalla dittatura nel romanzo. A parte Orlando e la signora Minardi (fiduciaria del gruppo rionale fascista), figure inserite nella burocrazia di partito, nessuno è un fervente sostenitore del regime; allo stesso tempo, nessuno si distingue per idee controcorrente. La riluttanza della madre di Jules a iscrivere la figlia alle organizzazioni giovanili sembra fondarsi più su un’indifferenza snob che su una reale volontà. Inoltre, questa distanza dalla massa emargina ancora di più Jules rispetto alle sue coetanee e la espone alle prepotenze del federale.
Geneviève Asse
Molto si è scritto sul ruolo del sesso ne La ragazza di nome Giulio. Il trattamento esplicito dell’argomento è valso a Milani il celebre processo, che in primo grado si era concluso con la condanna a sei mesi di reclusione e l’ordine di fondere i caratteri tipografici. In breve: Jules è incapace di avere un rapporto penetrativo completo e di raggiungere il piacere (mentre la masturbazione non crea complicazioni di sorta).
Milani non si concentra solo sulle difficoltà dell’orgasmo femminile — che, se serve specificarlo, è serio e purtroppo sempre attuale — ma usa i problemi sessuali di Jules per sottolinearne l’isolamento emotivo: il sesso può essere anche un modo per conoscere l’Altro corpo e anima, per andare verso l’Altro, per conoscere noi stessi e per uscire da noi stessi, per abbandonarsi. A Jules tutto ciò resta precluso.
Io non la fuggo la solitudine, e nemmeno la cerco: essa è presente nel mio modo di essere, di avere vita.
Non amo la gente che mi circonda, odio la confidenza con i propri simili. Come un animale selvatico, osservo e non scopro me stessa.
Mia madre, Lia, Lorenzo, Amerigo, [...] i lontani protagonisti di questa storia, sino ai più recenti, [...] le conoscenze occasionali, tutta questa folla che appare e scompare se io scuoto il mio cervello, mi sembra confondersi in un essere unico, enorme, spaventoso, che non è uomo o donna, ma forse è più uomo che donna, se distintamente vedo agitarsi, gonfiarsi, protendersi, un volgare, assurdo aggeggio maschile, il phallus degli antichi; quasi esso mi minaccia, mi terrorizza, mi obbliga a coprirmi gli occhi, ad allargare le gambe e ho schifo, voglia di rimettere, la saliva mi riempie la bocca, sono sperduta nella mia squallida solitudine di ragazza Jules.
Perché su di me un nome, un'indicazione, una precisazione?
Perché cercare e non trovare?
Ma che cosa, infine, sto pensando di trovare?
Che altro dire di lei? Anche se mi hanno infastidito le sue fantasie di eccezionalità, si tratta di pensieri tipici di tutti gli adolescenti e intrecciati alla sua immensa solitudine (oltre che da essa almeno in parte motivati). Jules, come molti, non ha un vero affetto forte, che le serva da struttura e da ancora. Per trovare un punto fermo, si rivolge anche a Dio; Dio non risponde.
Come accade in Storia di Anna Drei, anche il secondo romanzo di Milena Milani mette al centro i luoghi in cui vive la sua protagonista, in particolar modo Venezia, che viene descritta con una partecipazione che non indulge mai a lacche da cartolina.
Jules e sua madre si trasferiscono nella laguna dopo una vacanza a Cortina, che rinsalda nella ragazza la convinzione di “essere sbagliata” e che termina dopo la morte di Camillo, un ragazzino a lei vicino ma con cui, al solito, non riesce ad avere un contatto reale.
“Guarda”, io dissi quando ci affacciammo sulla pista che scompariva in basso, “gli alberi sono uomini che sono stati cattivi. Anche le montagne sono uomini cattivi.”
“Tu non sarai mai un albero o una montagna, allora”, disse Camillo. “Tu sei buona.”
“Senti, Camillo”, dissi lentamente, “io non sono buona… faccio sempre troppe cose cattive.”
“Di che genere?”
“Di ogni genere.”
“Per esempio?”
Avrei voluto dirgli tutto, avevo bisogno di sfogarmi con qualcuno, avrei voluto parlare, spiegare di me, tutte le contraddizioni, le insofferenze, i rancori, le bugie, ma non osai.
Il trasloco a Venezia inaugura un periodo di relativa quiete interiore per Jules. Vive con la madre in un appartamento di proprietà di una signora ebrea (affittato prima che venisse requisito dai tedeschi), riceve a volte le visite di Lorenzo, il suo fidanzato4 fin dai tempi di Perugia, adotta gatti randagi, cammina per la città5.
A differenza di Genova e del resto dell’Italia settentrionale, la Serenissima viene risparmiata dai bombardamenti. Esclusa una retata a cui assiste Jules, le realtà della guerra rimangono lontane dalla narrazione, che salta in avanti fino al 1948.
Ormai studentessa universitaria, Jules avverte che i tempi stanno maturando per quanto riguarda il matrimonio con Lorenzo, senonché proprio per tramite suo conosce Franco, verso il quale sembra concepire un amore autentico. È per lui che decide di sottoporsi a una visita ginecologica durante la quale le viene diagnosticato un problema fisico; Milani, però, non è interessata a un epilogo fiabesco, e i demoni di Jules non si esorcizzano con una semplice incisione. Il sesso non dipende solo dal corpo.
Soltanto amore (1975, Rusconi)
La scrittura e l’arte figurativa sono le due espressioni artistiche elette da Milena Milani, parte dell’ampia coorte della nostra letteratura che frequentava entrambe: basta pensare a Lalla Romano, a Carlo Levi o a Dino Buzzati. Nelle biografie autoriali che accompagnano i suoi libri si menziona sempre la sua partecipazione allo Spazialismo di Lucio Fontana, avanguardia di cui Milani firma tutti i manifesti; inoltre, la scrittrice collabora alla gestione della milanese Galleria del Naviglio6 (fondata da Cardazzo nel 1946), fino alla morte del compagno.
Anna Drei rivendicava: Sì, è una donna che scrive. In Soltanto amore, è una donna che dipinge.
Marcella, la protagonista del romanzo, è all’inizio del suo percorso artistico. Come Anna Drei, ha venticinque anni; come Jules, proviene dall’alta borghesia, in questo caso ancorata a Milano, dove vive con la famiglia al primo piano di una villa in corso Monforte. Prima di terminare il liceo artistico, però, ha sposato Rodolfo, un promettente agente di borsa dal quale, all’inizio della narrazione, ha appena divorziato.
Marcella vive in un altro dei luoghi di Milena Milani: Albisola, un piccolo centro ligure frequentato da artisti come Giuseppe Capogrossi, Piero Manzoni e Wifredo Lam. Qui ha rilevato lo studio di Paola, un’amica pittrice con la quale ha avuto una breve relazione erotica subito dopo la fine del matrimonio. Marcella vuole dipingere e ha addirittura già in programma la prima mostra (Rodolfo, con il quale ha mantenuto ottimi rapporti, le promette che i loro amici le compreranno molti quadri); Milani non descrive mai il suo lavoro artistico, dunque non sappiamo bene se ci troviamo davanti a una potenziale Niki de Saint Phalle o a una poor little rich girl che nessuno ha pensato di indirizzare verso la gioielleria o la decorazione d’interni7 .
Che cosa voglio dalla vita? Che cosa cerco?
Dipingere, esprimere me stessa, realizzarmi in qualcosa come si dice ovunque, preparare i quadri per la mostra, cercare di dire con la pittura quello che ho dentro […].
In una giornata ormai fredda, mentre la stagione sta digradando verso l’inverno, Marcella si aggira per Albisola, cammina sulla spiaggia, riflette e ricorda. Come ne La ragazza di nome Giulio, è la sua storia sessuale a occupare gran parte del romanzo; i primi approcci sono caratterizzati da una presenza femminile legata alla sfera domestica: un’insegnante privata, il cui turbamento di fronte agli strofinamenti inguinali ricercati dalla bambina Marcella si esprime in punizioni corporali; più tardi, la nonna, portata dal follia religiosa a trasformare la nipote in una sorta di mummia nel corso di un rito che ispirerà il gioco esplorativo di Marcella e dei due coetanei vicini di casa, i fratelli Pio e Walter. Anni dopo, Marcella deciderà in piena consapevolezza di andare a letto per la prima volta proprio con il secondo — senza nessuna delle difficoltà di Jules, per fortuna. Tuttavia, anche se è più facile essere nate nel 19488 piuttosto che nel 1924, rimane sempre difficile conoscere l’Altro.
Carol Rama
Marcella, da adolescente, rimugina riguardo i genitori:
In questa casa nessuno sente quello che dico, nessuno si occupa di quello che faccio. Non so se agisco bene, se agisco male. Nessuno mi giudica, nessuno mi condanna, nessuno mi rimprovera, nessuno mi castiga.
Da adulta, riguardo gli altri:
Non mi sono accorta degli altri, non ho avuto amore verso di loro, non ho mai fatto uno sforzo per capire quello che c’è nel cuore, nella mente altrui.
Riguardo i suoi rapporti con gli uomini:
Cosa significa concedersi come io mi concedo? In ognuno dei ragazzi, degli uomini che conosco, che ho conosciuto, cerco la dimora che mi trasformi, che non sia soltanto terrena.
Quest’ultimo è uno dei momenti in cui la narrazione lascia trasparire l’influenza della religione, che innerva tutto Soltanto amore. Marcella non ha ricevuto una stringente educazione cattolica, eppure, nella sua fragile situazione psicologica, è a quell’immaginario che torna più volte: quando immagina l’esistenza di Nino Rovea gli attribuisce le sembianze di un bellissimo Cristo e, nell’esprimere i suoi desideri (“vorrei che entrassi in me con estrema dolcezza, e io rimanessi infilzata sulla tua punta di fuoco”), utilizza le stesse parole di Santa Teresa d’Avila quando descrive l’estasi9 che sarà scolpita dal Bernini.
Milena Milani lavora ancora una volta su un personaggio femminile ferito da una profonda solitudine, il cui approccio precoce al sesso è stato punito con inutile severità o, al polo opposto, forzato da una persona adulta. Fin dall’inizio, è chiaro che la protagonista sta considerando il suicidio.
Tuttavia, a differenza di Jules, Marcella non è sola; a differenza di Anna Drei, desidera ancora vivere: la fine del romanzo apre verso uno scorcio luminoso. Forse anche per questo è il mio preferito.
Mentre meditavo su questa uscita e su Soltanto amore10, ho ripensato al contemporaneo Una lunga confessione di Marise Ferro (1972), che qualche anno fa mi aveva colpito per la libertà nello scrivere di sesso. Impossibile immaginare testi simili nel decennio precedente, quando il linguaggio molto più obliquo, anche se inequivocabile, de La ragazza di nome Giulio era stato sufficiente a trascinare in tribunale l’autrice, l’editore e addirittura il tipografo.
Facciamo un passo in più: da quale prospettiva si muoveva la lingua che Milani e Ferro avevano a disposizione per scrivere di sesso? I “romanzacci” che legge Irene sono tutti di mano maschile11, mentre le protagoniste di Milani non sono grandi lettrici. Forse una progenitrice potrebbe essere Félicité de Choiseul-Meuse12, che pubblica i suoi romanzi libertini alla fine del XVIII secolo. Alla fine degli anni ‘20 del Novecento, i surrealisti, interessatisi al tema nella loro Enquête sur la sexualité, avevano cercato opinioni femminili. Più vicino ancora a Jules, Marcella e Irene, troviamo la Storia di O di Pauline Réage, nel 1954; nello stesso periodo, i testi di Iris Owens per la famosa Olympia Press, firmati con lo pseudonimo di Harriet Daimler; nel 1966, esce Gordon di Edith Templeton. I precedenti esistono, però non sono così numerosi e non nascono in italiano.
Inventando e guadagnandosi la propria libertà, Milena Milani l’ha regalata anche alle altre.
La rossa di via Tadino (1979, Rusconi)
La figura femminile analizzata da Milena Milani, nelle sue diverse sfaccettature, finora è rimasta piuttosto stabile: sui venticinque anni; approccio alla sessualità problematico e precoce; agiata famiglia d’origine.
La rossa di via Tadino, invece, rompe con questa tradizione per analizzare Mara Fantoni, che ha già trentacinque anni, inizia a vivere la propria sessualità senza costrizioni, oltre che in tempi più adatti, e, infine, lavora come segretaria per un avvocato milanese. In Mara c’è anche una passività che la allontana ancora di più da Anna Drei, Jules e Marcella, tre ragazze che non si lasciano costantemente attraversare dagli avvenimenti ma cercano anche di provocarli.
Il romanzo ripercorre l’anno durante il quale Mara ha vissuto una storia d’amore con Fabio, un imprenditore bresciano, senza abbandonare Piero, suo amante abituale da anni, e senza negarsi altre storie più brevi.
Milani si rifà al tipico schema narrativo che contrappone stabilità e avventura: entrambi i candidati, se poi sono candidati a qualcosa, sono sposati e nessuno dei due ha intenzione di lasciare la famiglia. Piero è un rappresentante di orologi sempre in giro per lavoro, affidabile per quanto riguarda la sua disponibilità sessuale e il suo affetto (espresso in modi grossolani, ma sincero); Fabio è divorato da un’ambivalenza che lo porta ad allontanarsi e ad avvicinarsi a intervalli che potrebbero essere regolati dagli orologi di Piero.
Uno lo amo e l’altro no, o meglio uno mi fa soffrire e lo amo, con l’altro invece trascino una storia da parecchio tempo, però spesso mi è utile anche lui, almeno mi distrae dal pensiero dell’altro.
Il più vicino all’archetipo dell’uomo da sposare forse è l’architetto Masi, un cinquantenne di successo che compare nella seconda parte del romanzo. Anche se:
[M]i dissi che non dovevo incominciare un altro rapporto, mi andava solo di parlare, di raccontare di me, avevo bisogno di essere ascoltata.
L’architetto mi sembrava così adulto da essere certamente saggio, almeno più di me, che ero sempre sventata. […]
Chissà perché io ero, invece, tanto drammatica. A me si addicevano cupe tragedie, le cercavo addirittura, continuavo a porgere l’altra guancia quando Fabio mi faceva del male. Mi accorsi che infatti facevo così, giorno dopo giorno.
Carla Cerati
Usando il mio apprezzamento personale come metro, La rossa di via Tadino è il meno bello tra i romanzi di Milena Milani: se durante la prima lettura la curiosità per lo sviluppo della vicenda sorreggeva ancora il mio interesse per circostanze così trite, nel corso della difficile rilettura ho provato una crescente insofferenza, esacerbata dal continuo rimirarsi allo specchio della protagonista. Non è detto che all’autrice dispiacerebbe la mia reazione, però, considerato che fa dire alla stessa Mara:
[C]on tutte le mie arie, quel desiderio a volte di autodistruggermi, di annientarmi, non ero che una ragazza adulta, cresciuta esteriormente, ma non internamente, nell’animo, nel cervello.
Restavo un’adolescente, alla ricerca della perfezione amorosa, della felicità irraggiungibile, quel regno della beatitudine, dove due esseri si fondono, vibrano insieme, necessari, indispensabili l’uno all’altro, pronti a conquistare la propria compiutezza a ogni nuovo incontro.
Povera rossa di via Tadino, too far out on the wilder shores of love.
L’opacità che il personaggio di Fabio conserva fino alla fine non aiuta il libro: la probabile banalità delle sue motivazioni13 non precludeva una maggiore indagine della sua psicologia. Una parte rilevante del romanzo è occupata dalle lettere di Mara a Fabio, che ripetono parossismi nevrotici come:
Caro, perché abbiamo perduto tutto questo tempo, e quanto ho dovuto soffrire, perché tu ritornassi. Ma anche se mi farai molto male ancora, oggi sono felice, stamattina ero felice. Ti sei accorto che ti amo? Hai capito che trovo mille cose in te? E quando mi chiedi che cosa trovo, non è forse una domanda assurda?
Fabio, amo tutto di te, anche la tua cattiveria, la tua indecisione, la tua paura. Però amo la tua pelle, le tue labbra, le tue unghie, e altre cose segrete, quando sento che provi un piacere e gemi su di me. Caro, fammi stare vicina al tuo cuore. Ritorna presto, perché il tempo passa troppo velocemente e abbiamo solo poche ore per amarci.
Possono anche essere sentimenti comprensibili, però quest’amour fou rimane sempre inesorabilmente sot14.
Piero e, in una certa misura, Masi sono personaggi più accattivanti, che si distaccano dagli stereotipi a cui rimandano grazie a un’umanità verosimile — o forse si capisce meglio qual è la loro attrattiva (Piero “scopa da Dio” e non crea sconquassi emotivi; Masi è un ottimo sodale e offre a Mara il classico buon matrimonio).
Nel romanzo si percepisce un certo esaurimento della vena autoriale, il che potrebbe spiegare la riuscita solo parziale del testo; dopo La rossa di via Tadino, Milena Milani non ha scritto altre lunghe opere di prosa, anche se le sue collaborazioni con giornali e quotidiani continueranno ancora a lungo.
Mi sarebbe piaciuto seguire l’evoluzione delle sue ragazze irrequiete fino alla tarda età, ma non importa: Milani può andare fiera dei primi tre romanzi e si fregerà sempre della medaglia di quel processo ipocrita vinto in appello.
Milena Milani intervistata in Scusi, lei è favorevole o contrario?, diretto da Alberto Sordi (1966).
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Sulla mia scrivania.
Sto preparando quest’uscita dalla scorsa primavera, mi sembra irreale aver finalmente finito.
La maggior parte dei materiali necessari, visibili nella fotografia, è stata acquistata utilizzando le donazioni ricevute su Ko-fi. Grazie a Ludovica, Francesco, Lorenzo e Grazia!
Purtroppo, nessuno dei titoli di Milena Milani è in catalogo, però si trovano cifre modiche nel circuito dell’usato e su eBay.
Una nota di metodo: Io donna e gli altri riporta la dicitura di romanzo, ma — a differenza dei quattro libri trattati in quest’uscita — si tratta di un memoir, camuffato per ragioni che posso immaginare (pudore personale, atteggiamento guardingo nei confronti della famiglia Cardazzo, desiderio di evitare potenziali noie, sacrosanta decisione autoriale).
Grazie ad Andrea per la revisione del testo.
Le fonti
Volumi consultati: Invito alla lettura di Alessandra Trevisan (2024, Digressioni Editore); Venezia Novecento. Le voci di Paola Masino e Milena Milani, a cura di Arianna Ceschin, Ilaria Crotti, Alessandra Trevisan (2020, Edizioni Ca’ Foscari); Maledizioni di Antonio Armano (2014, BUR); Il comune senso del pudore di Marta Boneschi (2018, Il Mulino); Il giorno con la buona stella: Diario 1945-1976 di Lea Quaretti (2016, Neri Pozza); I giovani di Mussolini di Aldo Grandi (2001, Dalai); Il tuo nome sarà Irene: Il romanzo della vita di Irene Brin di Claudia Fusani (2019, All Around); 1952: L’Italia esplode di Irene Brin (2014, Viella); Smeraldi a colazione di Marta Marzotto (2020, Cairo); Fiato d’artista di Paola Pitagora (2001, Sellerio).
Online (alcuni link potrebbero aprire un file PDF): l’articolo per Il Tempo di Milena Milani, risalente al 1950, riguardo Rina Fort, protagonista di uno dei casi di cronaca nera più noti del secolo scorso (c’era proprio lei, di profilo, con Fort in copertina); gli articoli visionabili grazie alla Biblioteca Gino Bianco; i post dedicati a Milena Milani da Le Ortique; un’intervista del 1979 per il mensile femminista Effe; un’intervista del 2013 condotta da Alina Rizzi; una recensione di Leone Piccioni alla raccolta Emilia sulla diga per L’approdo letterario; un ricordo di Fulvio Sguerso; un ricordo di Gianfranco Barcella; Sileno Salvagnini su Carlo Cardazzo; il necrologio di Ada Milani Zunino; un’intervista a una maligna Bice Cairati, alias Sveva Casati Modignani, che aveva lavorato presso la Galleria del Naviglio; storia della Galleria del Naviglio.
Fondato nel 1930 da Angelo Rossellini, padre del regista di Roma città aperta, il cinema Barberini esiste tuttora.
Visionabile qui, nella metà inferiore della pagina di destra; corrisponde, credo senza tagli o aggiunte, alla sezione del romanzo che va dal capitolo XIX al capitolo XXIII.
Esempi che mi sembrano più consoni, sempre dai romanzi di Milani: in Soltanto amore, la relazione tra la protagonista Marcella e Paola, un’amica del liceo, quando si ritrovano verso i venticinque anni; ne La ragazza di via Tadino, quelle che la protagonista Mara ha con Lorena, intorno ai diciotto anni, e poi più tardi con Franchina P., una collega di lavoro.
Non arriva ai livelli criminali di Lia e di Orlando, ma è un personaggio che mi fa venire i brividi.
Un altro punto in comune con Anna Drei, entrambe certo aiutate dal poter vagare per due delle città più belle del mondo.
È l’epoca delle galleriste: sempre nel capoluogo lombardo, c’è Beatrice Monti della Corte con la Galleria dell’Ariete; a Roma, la scrittrice e giornalista Irene Brin ha fondato la Galleria dell’Obelisco con il marito Gasparo del Corso; a Venezia, Peggy Guggenheim; a Parigi, Iris Clert; a New York, Ileana Sonnabend. A metà anni ‘70, anche Ada Milani Zunino, sorella della scrittrice, aprirà nel capoluogo lombardo una galleria d’arte dedicata alla scultura.
Non è un insulto essere paragonati a Elsa Peretti! E nemmeno a Martina Mondadori.
Visto il riferimento alla crisi petrolifera, il romanzo probabilmente è ambientato nel 1973.
Dalla Vita di Teresa D’Avila, inclusa in Tutte le opere, a cura di Massimo Bettetini (2018, Bompiani):
Lo vedevo con nelle mani un lungo dardo d’oro, e sulla punta della freccia pareva esservi un po’ di fuoco. Sembrava che quest’angelo me lo facesse penetrare fino al cuore e nel più profondo delle viscere. Nel ritirarlo, sembrava che strappasse con esso le medesime, e mi lasciava ardente nel grande amore di Dio.
Non fosse per il contesto mistico, sarebbe anche un altro esempio di scrittura del desiderio femminile.
Mentre mi sorprendeva, tra l’altro, che un libro così esplicito sia uscito per un editore cattolico come Edilio Rusconi.
La mia idea di libri perniciosi e deteriori è molto diversa, ma eccoli:
Di cui ho parlato brevemente nell’elenco delle letture notevoli del 2023.
Buttare all’aria un conveniente matrimonio borghese per una rossa sexy? Inaudito! Ma sarebbe stupido privarsi di un piacere da lei così insistentemente offerto per colpa di qualche sua intemperanza.
“Sciocco, stupido, stolto” secondo un mio vecchio dizionario.