LAB 57: Attraversando il confine della memoria con Luce D'Eramo e Ghebreyesus Hailu
La storia singolare di Deviazione e il racconto esemplare de L'ascaro.
L’email di oggi è molto lunga, può essere meglio aprirla nel browser cliccando sul titolo. Buona lettura.
L’altra biblioteca, pur non seguendo sempre una programmazione tematica, ha alcune tradizioni; ad aprile, è consueto che tratti di un libro legato in qualche modo a temi come il fascismo e l’ultimo conflitto mondiale.
Anche se sapevo che il ritorno primaverile della newsletter sarebbe caduto a maggio, avevo comunque deciso con largo anticipo che mi sarei occupata di due libri inusuali rispetto alle narrazioni che siamo abituati a leggere — non perché sia sbagliato leggere La Storia o Una questione privata, ma perché si può anche spaziare altrove.
Deviazione: Schmerz und Liebe
Luce D’Eramo (pseudonimo di Lucette Mangione), figlia di due funzionari fascisti, dopo l’8 settembre 1943 si allontana dagli agi a cui è abituata e parte volontaria per la Germania, dove lavorerà come operaia presso l’azienda chimica IG Farben. Questa decisione deriva anche dalla sua necessità di appurare la realtà del fascismo, fino a quel momento celata dai genitori e dall’ambiente da cui proviene. Le prime tre parti (su quattro) di Deviazione, alla cui protagonista D’Eramo dà il nome di Lucia, descrivono la sua esperienza in fabbrica, la sua successiva detenzione nel lager di Dachau e la sua fuga.
Mentre leggevo, immaginavo una diciottenne imbevuta di studi classici, soprattutto del concetto di αὐτοψία, il “vedere con i propri occhi” di Erodoto, la storia come una testimonianza che nasce dall’osservazione diretta. Un’estrema fiducia in sé che sfiora l’arroganza e che rende difficile da rispettare anche la scelta di lavorare in fabbrica, da cui proviene il frequente accostamento di D’Eramo alla filosofa Simone Weil; Lucia/Luce non mi sembrava distante dal figlio del magnate che, seguendo atavici costumi feudali, “va a fare esperienza” in tutti i dipartimenti dell’azienda prima di assumerne il controllo.
“È stato straordinariamente semplice fuggire”, esordisce D’Eramo, raccontando di trovarsi a Monaco con il resto della squadra di Dachau addetta a pulire le condutture di scarico della città.
Pulire le fogne è un lavoro più variato di quanto non appaia a prima vista: ci sono diverse gradazioni.
A volte si deve sollevare una piastra metallica su un marciapiede e calarsi nella fossa sottostante attraversata da un grosso tubo dal quale sporge verticale un corto collo chiuso. Si scoperchia questo collo e vi si introduce il bastone agitandolo per smuovere le feci ammassate. Bisogna scuoterle e rimestarle finché non scivolino di nuovo.
Altre volte pulivamo i cessi e i condotti delle fabbriche e degli edifici pubblici. Oppure ci conducevano al canale grande di scarico e dalle finestrelle spingevamo con lunghi bastoni le feci arenate e vi gettavamo sopra acidi corrosivi e acqua; e tutta quella decomposizione mefitica si allontanava rapida come una corrente infernale.
Con questo primo accenno al motivo scatologico inizia la prima parte del libro, Fuga dai lager, che comprende una sezione ambientata nel ricovero per profughi di Thomasbräu e un’altra nel lager di Dachau; siamo sul finire del 1944.
La seconda parte, Finché la testa vive, si apre con l’incidente del febbraio 1945, che costerà all’autrice la paralisi a vita, e ne segue la tormentata convalescenza fisica ed emotiva, per poi terminare nel dicembre dello stesso anno con il rimpatrio definitivo in Italia.
La regolarità della cronologia viene messa in crisi dalla terza parte, Primo arrivo nel terzo Reich, dove D’Eramo torna ancora più indietro nel tempo per registrare la sua esperienza di diciottenne borghese all’IG Farben, nella primavera del 1944, segnata dell’impatto con la quotidianità del lavoro operaio e con la vicinanza agli strati più bassi della popolazione. Sempre attenta alla sobrietà della cronaca, D’Eramo descrive come, di fronte alle condizioni quotidiane in fabbrica, avesse iniziato a covare un’idea comunissima nella Francia in cui è nata e cresciuta fino ai tredici anni, altrettanto banale nell’Italia pre-fascista: uno sciopero, forma di protesta vietata dal 1925.
I compagni all’IG Farben, che avevano lo stesso obiettivo, la sobillano affinché, se è una spia del regime, si comprometta, oppure, in caso contrario, funga da parafulmine attraverso le sue conoscenze.
Infine, il cuore del libro, la parte finale: La deviazione, che va inserita tra gli eventi della terza parte e quelli della prima. Qui Luce D’Eramo affronta l’anello mancante: il passaggio dal lavoro volontario all’IG Farben, culminato nel fallimento dello sciopero, all’internamento a Dachau, da cui poi riesce a fuggire.
L’ordine cronologico viene rispettato invece per quanto riguarda le date di composizione con cui si conclude ciascuna sezione, che vanno dal 1953 al 1977 (Deviazione esce per Mondadori nel 1979). A cosa si deve questo scarto tra fabula e intreccio?
Ricapitoliamo il contesto. L’IG Farben è un’azienda chimica che compare anche nelle memorie di Primo Levi; una delle sue divisioni produce lo Zyklon B, che si usa per le esecuzioni nelle camere a gas dei lager.
Organizzare uno sciopero in un posto simile sembra un paradosso, se non addirittura una follia, ma D’Eramo afferma che si erano fatti deportare lì diversi operai francesi proprio con l’obiettivo di scatenare la sollevazione in contemporanea allo sbarco in Normandia. Nonostante l’insperato aiuto dovuto alla nascente coscienza politica della giovane (ex?) fascista, lo sciopero fallisce. Dopo una breve detenzione, Lucia/Luce, favorita dalle sue origini familiari e dall’aver impedito il suicidio di una prigioniera tedesca incinta, viene rimandata nelle baracche degli operai, dove a sua volta tenta di togliersi la vita. Pur cambiando idea dopo aver assunto il veleno, le sue condizioni sono abbastanza serie da garantirle lo spostamento in un ospedale; da lì, potrà tornare in Italia, in seno alla famiglia, che vive in una villa sulle rive del lago di Como. Suo padre, Publio Mangione, si è schierato con la Repubblica di Salò, di cui è sottosegretario.
In effetti, Lucia/Luce torna in Italia e arriva fino a Verona1. Però non ha voglia di andare a Como, preferisce perdere tempo; dopo il coprifuoco, in una sera di inizio agosto, viene fermata da una ronda di militari repubblichini.
“Guardate le mie carte, leggete qui, vedete? [...] M’hanno liberata perché ero innocente ma io sono stata male. E così ritrovarmi in Italia, con la gente che parla forte, le pesche che si vendono liberamente per la via...”
“Il sole” s’immedesimò [il maresciallo].
“Sì, il sole, tutto, dopo quasi sei mesi di reclusione tra il Lager e il resto, non sono stata a precipitarmi, m’è venuto di farmi una passeggiata.”
“Capisco ma vallo a dire ai superiori. Chi glielo dice? Glielo dici tu?”
“Se nessuno parla, io sto zitta” promisi. “Mettetemi a dormire da qualche parte, parto domattina per Como e chi s’è visto s’è visto.”
Un’altra decina di militi giacevano svaccati per terra, chi ronfava, chi era sveglio e seguiva la scena.
“E chi mi dice che non sei una di quelle? Mica voglio il bordello qua dentro. Le ispezioni fioccano, ragazza mia. Se eri partigiana, noi s’andava sul pulito, si poteva chiavare liberamente. C’era il merito dello sfregio che ti facevamo. Poteva capitare Hitler in persona che ci trovava a cazzo ritto: azione di guerra” dichiarò tirando una riga nell’aria col pollice e l’indice uniti.
Lo stupro di gruppo, un antico e sempre attuale rito che rinsalda i virili legami tra uomini, le viene risparmiato; la mattina, dopo averla svegliata, la mandano via in malo modo. A questo punto, chiunque si aspetterebbe un ritorno a casa, non necessariamente all’ideologia fascista, ma almeno alla calma e alla protezione della dimora familiare.
Invece Lucia/Luce devia.
Si unisce a un gruppo di italiani rastrellati dalle SS, facendo in modo di perdere i documenti (ergo i benefici che la sua identità le assicura); da lì a poco, mescolata a loro, salirà su un vagone-merci diretto in Germania.
Una volta a Dachau, le verrà assegnato il triangolo nero dei detenuti “asociali”, il che per le donne significa quasi sempre “prostitute”. Se l’esperienza all’IG Farben era già stata uno schiaffo, nelle dodici settimane a Dachau la sbalordita narratrice potrà vedere con i propri occhi il limite dell’umanità. Ogni tipo di sopruso e violenza, inclusa quella sessuale, rappresenta la normalità di ogni giorno; la studentessa di buona famiglia fascista continua a ripetersi che tutto questo non è normale, finché non comprende che l’universo concentrazionario non è altro che un’esasperazione per lei inaudita dell’ordine che già caratterizza la società esterna.
Una costante mi si faceva strada nella mente: come a Frankfurt, anche a Dachau i ricchi, i potenti, non c’erano.
Ma se nei campi annessi agli stabilimenti industriali lo si poteva capire – a una fabbrica occorrono lavoratori, non signori – in un [campo di concentramento] la cosa era sospetta: non c’erano forse antinazisti nell’alta società europea? O non erano perseguitati?
Gli stessi ebrei erano quasi tutti creature rastrellate nei ghetti mitteleuropei, una marea d’artigiani, operai, piccolissimi commercianti, qualche pugno d’intellettuali, soprattutto medici, chimici, ingegneri, cioè coloro che disponevano d’un “capitale mentale” (come dicevano i nazisti) che poteva tornar comodo al Terzo Reich. [...]
Ogni giorno mi confermavo nella mia convinzione. Tra i cattolici, tutto basso clero. [L’infermiera] Ellen non sopportava questo pensiero. Una mattina m’arriva con la notizia di due vescovi polacchi deportati, e un cardinale olandese.
“Tutto qui?” rido.
“Anche una principessa italiana.”
“Ah!” derido e: “Come ti spieghi che anche tra i prigionieri militari italiani, tra i badogliani come son chiamati, solo i soldati sono costretti a lavorare, mentre gli ufficiali possono rifiutarsi di farlo e i gradi superiori ne sono addirittura esentati? Neppure questa la chiami discriminazione di classe?”
Del resto, i campi di concentramento e di sterminio non sono un’innovazione nazifascista nella storia tedesca e italiana, perché erano già stati usati rispettivamente in Namibia e in Libia2, contro un diverso Altro di cui è necessario sottomettere il corpo e spezzare la mente.
Talvolta gli sconquassi politici fanno sì che approdi in questi luoghi una delle persone a cui non sono davvero destinati, come la “principessa italiana”: si tratta di Mafalda di Savoia, secondogenita del re che, con il sostegno della borghesia industriale e agraria dopo i moti del Biennio Rosso, aveva consegnato il paese a Mussolini; insieme a molti altri, la figlia di Vittorio Emanuele III morirà a Buchenwald.
Nemmeno “la figlia di fascisti notori” avrebbe dovuto trovarsi in un lager, ma l’ha scelto, anzi, di più: l’ha cercato. Libera a Verona, ancora una volta salvata dalla propria identità, Lucia/Luce ha scelto l’abiura di sé per poter ritrovare in qualche modo i compagni dell’IG Farben, ai quali ha bisogno di far sapere che non si è chiamata fuori dal loro destino comune. Di questa decisione per anni non parlerà, né ad altri né a se stessa.
Dopo la fine della guerra, Luce D’Eramo è ancora giovanissima. Si sposa subito con un reduce incontrato all’ospedale di Bologna dove sta facendo riabilitazione, si laurea in Lettere, ha un figlio, si costruisce una vita autonoma. Accanto a tutto questo: sviluppa una dipendenza dai farmaci e deve affrontare la soffocante pietà altrui, mascherata da ammirazione per il suo coraggio.
Infatti, a causa di un incidente avvenuto a Magonza nel febbraio del 1945, mentre cerca con altri di liberare alcune persone intrappolate sotto le macerie, Luce D’Eramo rimane per tutta la vita paralizzata alle gambe. La disabilità ha un ruolo fondamentale nella quarta parte di Deviazione: D’Eramo deve affrontare sia le difficoltà date dalla sua condizione, sia quelle che derivano dall’atteggiamento di chi le sta intorno. Non c’è tempo per il passato, che emerge solo qualche anno dopo, all’inizio degli anni ‘50, a causa di contrasti con il marito dovuti all’infedeltà di lui e al disaccordo riguardo l’educazione del figlio. La sensazione di prigionia fa riemergere la fuga dai lager.
Poi, nel 1960, per il troppo lavoro Luce D’Eramo viene ricoverata in una casa di cura. La scrittrice è disturbata dal vedere la propria disabilità riflessa in così tante altre persone, è infastidita dalle fissazioni degli ospiti per la propria salute, cerca di isolarsi e di tenersi a distanza.
Ma, una notte che una colite mi sconvolgeva e stavo in camicia infreddolita nel bagno a spiare gli spasmi dei miei intestini per fare in tempo a saltare sulla tazza del cesso senza sporcare di merda la carrozzina, mi sono vista improvvisamente allo specchio della mente: proprio io guardavo con occhio estetico i miei compagni d’umiliazione fisica. Io ero diventata quell’occhio sociale che m’aveva funestato l’esistenza.
Sono rimasta così inebetita che ne ho scordato i brontolii dei visceri (e la colite m’è passata). Stavo lì, davanti alla tazza del cesso, piegata in due dalla vergogna come davanti a un confessore. Io, per una misera emancipazione dall’incontinenza delle funzioni, per quattro stentate acquisizioni di motilità, mi sentivo superiore ai miei simili, mi armavo delle loro privazioni per ritorcergliele contro. Che m’era mai successo in quegli anni per avermi ridotta a questa volgare aristocratica ripulsa dal contatto fisico con chi dipende e sta male.
In Deviazione, che si apre con una squadra addetta alla pulizia delle fogne, gli escrementi compaiono a ogni snodo cruciale del testo. Un’abiezione quotidiana, normale, di cui non si parla mai; certo non ne parlano le donne, ancora meno le donne di una certa classe sociale3.
Dopo questo momento, Luce D’Eramo estrae dalla memoria Finché la testa vive (pubblicato nel 1964 da Rizzoli) e inizia a interessarsi sempre di più ai diritti delle persone disabili.
Per arrivare a La deviazione sarà necessario attendere ancora: la crescita del figlio, il ‘68, la violenza degli anni di piombo.
La IG Farben viene smembrata nelle diverse fabbriche da cui era composta prima della conglomerazione del 1925 (una delle quali, per esempio, è la Bayer); i suoi dirigenti sono liberi dal 1951 in avanti e tornano a occupare la posizione sociale che a loro si confaceva così bene.
Alla fine del 1975, in seguito a un trasloco, a Luce D’Eramo capita in mano il tesserino da operaia, con il suo volto di diciottenne; si rende conto che manca poco al riaffiorare dell’episodio di Verona, al ritorno della deviazione.
Oh Dio, tanti mesi d’un rovello indicibile per ritrovarmi con questa storia edificante d’una minorata che ce l’ha fatta, la classica favola americana, meritocratica, individualista, l’intemerata eroina che attraverso errori e incomprensioni la spunta, esempio e monito, pure con l’epilogo modernamente in sordina di chi esce discretamente dalla scena – la figura retorica del trasloco ai piani inferiori – senza zum zum ottocenteschi. E mi sentivo anche liberata, ma di che?
Intorno al 25 aprile le raccomandazioni di libri si infittiscono, di solito per indicare testi meritevoli. Più invecchio, più trovo qualcosa di superficiale nel continuo allinearsi ai valori della Resistenza senza perlomeno interrogarsi sul ventennio precedente e sulle sue continuità con l’Italia liberale. La Resistenza si è combattuta in molti modi: attraverso le azioni dei partigiani (non solo italiani, e di ogni appartenenza politica), attraverso il sostegno della popolazione civile, attraverso le scelte dei militari italiani che dopo l’8 settembre disertano o che, internati nei lager in condizioni orribili, in grande maggioranza4 rifiutano l’adesione alla Repubblica di Salò, attraverso gli scioperi nelle fabbriche cominciati fin dal 1943.
Prima, però, l’antifascismo doveva scontrarsi con la repressione totale da parte dello Stato: chi osava opporsi rischiava il carcere, il confino o l’assassinio. Osavano in pochi.
La presa di coscienza di Luce D’Eramo inizia a maturare dall’interno di una famiglia fascista, circondata da un ambiente fascista, immersa in una società fascista. Ritenere che sia necessario accertarsi in prima persona delle realtà del fascismo segnala già una messa in discussione dello status quo.
La piena consapevolezza dei vantaggi che le assicura la sua nascita non si esprime in un elenco sterile degli stessi, ma nel non nascondere mai in quanti e quali modi le assicurano la sopravvivenza e, spesso, l’incolumità fisica.
Le prime tre parti di Deviazione sono testimonianze importanti di una persona singolare e della sua storia più unica che rara; l’ultima è un testo fondamentale, che ci consegna il resoconto di una spietata indagine interiore.
L’analisi del proprio sentire può facilmente degradarsi in un onfalocentrismo masochistico che cerca la compassione degli altri; Luce D’Eramo potrebbe ottenere la pietà di chiunque, magari sfruttando la sua condizione di disabile in un’epoca in cui era ancora comune l’uso del termine “minorato”, sottolineando la sua giovinezza ai tempi della guerra, enfatizzando le colpe dell’educazione ricevuta dalla famiglia.
Eppure ha abbastanza rispetto per la propria dignità e la propria intelligenza da non nascondersi dietro una cortina di verità facili. Il suo sguardo sonda se stessa con la stessa gravità con cui investiga tutto ciò che la circonda. È stata capace una volta, e lo rimane sempre, di allontanarsi dalla strada già tracciata per cercare un altro cammino.
In Figlie del silenzio (Quodlibet), Emilia Cece descrive tre donne e il modo in cui hanno gestito l’eredità paterna: Gudrun Himmler, figlia del capo delle SS Heinrich, anima l’associazione Stille Hilfe, che sosterrà l’emigrazione in Sud America di, tra gli altri, Josef Mengele, di cui sono noti gli esperimenti su esseri umani, ed Erich Priebke, che decise l’eccidio delle Fosse Ardeatine; Hilde Schramm, secondogenita dell’architetto del Reich Albert Speer, si dissocia dall’operato e dall’ideologia del padre, fa politica nel partito dei Verdi e fonda l’associazione Zurückgeben (restituzione) “per sostenere e non far scomparire le radici ebraiche dalla società tedesca”; Monika Ertl, figlia prediletta del regista Hans, un collaboratore di Leni Riefenstahl attivo nella propaganda nazista poi emigrato con la famiglia in Bolivia, si unisce all’Esercito di Liberazione Nazionale boliviano con il nome di Imilla ed entra poi in clandestinità: sarà lei a uccidere il torturatore Roberto Quintanilla Pereira, l’assassino di Ernesto Guevara.
Gudrun Himmler rivendica il passato paterno; Monika Ertl lo rimuove; Hilde Schramm lo rinnega e, senza occultarlo, lavora per il riconoscimento dei crimini di cui suo padre è stato complice. È a Schramm che ho pensato una volta concluso Deviazione. A differenza di Albert Speer, condannato a vent’anni di reclusione nel carcere di Spandau, il sottosegretario Publio Mangione può contare su alcuni meriti (ha nascosto e protetto alcuni partigiani) e nel dopoguerra diventa editore; la madre della scrittrice, Concetta Stracciamore, segretaria del Fascio, una volta separata dal marito si laurea e diventa un’insegnante. Per molti altri ci sarà l’amnistia.
Luce D’Eramo scrive e, nel corso degli anni, compone le diverse sezioni di Deviazione.
Heinrich Heine, il grande poeta romantico, conclude il suo Lyrisches Intermezzo con una poesia in cui chiede a chi lo ascolta una bara enorme, lunghissima e molto resistente, che servirà per seppellire “meine Liebe und meinen Schmerz”, il mio amore e il mio dolore.
All’ideologia fascista, allo sfruttamento della manodopera, ai soprusi nel confronti dell’Altro, alle difficoltà e crudeltà coniugali, alla dipendenza da antidolorifici, il libro di Luce D’Eramo accompagna il racconto della solidarietà tra operai all’IG Farben e tra profughi, l’aiuto reciproco tra le detenute asociali di Dachau, l’accettazione della propria disabilità, l’amore autentico del marito, la propria necessità di capire. Schmerz und Liebe. Così Deviazione non rimane un sepolcro sigillato, ma diventa, nelle parole di Goliarda Sapienza nel marzo 19795: “il più bel libro di questi ultimi dieci anni e forse un capolavoro assoluto”.
L’ascaro: la pietra che i costruttori hanno scartato
La primissima influenza italiana nel Corno d’Africa6 risale al 1869 (prima dell’annessione di Roma, per tacere di Trento e Trieste), quando l’imprenditore Raffaele Rubattino acquista la baia di Assab, parte dell’impero etiopico; nel 1882 Rubattino la vende al Regno d’Italia, che il 1° gennaio del 1890 istituisce ufficialmente la Colonia Eritrea. Il nome che viene imposto al territorio dal governo italiano ne sottolinea la posizione geografica sul Mar Rosso.
L’ascaro (Tamu Edizioni, traduzione di Uoldelul Chelati Dirar), ambientato diversi decenni dopo, è incentrato sul periodo della seconda guerra coloniale italiana per la conquista della Libia; l’Italia liberale, che tramite la guerra italo-turca del 1911 si era impadronita dei territori ottomani della Tripolitania (inclusa la regione sub-sahariana del Fezzan) e della Cirenaica, aveva perso il controllo della regione, che il regime fascista cercherà di ristabilire senza mettere limiti alle tattiche militari del gerarca Rodolfo Graziani7.
I quattro capitoli, corredati da prologo ed epilogo, che compongono il breve romanzo del teologo Ghebreyesus Hailu, ci raccontano le vicende di Tequabo Medhanie Alem, un giovane di famiglia agiata che, nell’incipit, chiede agli anziani genitori una benedizione per la sua imminente partenza: influenzato dal desiderio di gloria, si è arruolato volontario nei reparti coloniali dell’esercito italiano, e parteciperà alla (ri)conquista della Libia. Per Habte-Mikael e Reka è un momento lacerante, perché Tequabo è il loro unico figlio, l’ultimo nato dopo diversi fratelli morti ancora bambini.
La partenza degli ascari dalla stazione ferroviaria di Asmara è accompagnata da scene di caos e clamore, con istanti di crudeltà; per gestire la folla, venuta a salutare i suoi ragazzi, la polizia coloniale eritrea usa il qurmash, una frusta da bestiame. Una volta giunti a Massaua, i giovani militari si imbarcano per il fronte libico.
La nave, ululando con la sirena, emise un lamento tale da far gelare le viscere e, piano piano, iniziò ad avviarsi, sollevando schizzi d’acqua. I figli d’Etiopia iniziarono a cantare accompagnati da uno che suonava il krar8 mentre un altro, mancino, percuoteva con forza il tamburo, il tutto in un fragore che assordava la terra e il cielo. Tequabo, tuttavia, non partecipava a questi canti, rapito da pensieri che si erano impossessati di lui a forza. Dall’estremità posteriore della nave [...] con il viso rivolto al suo paese, pensava a suo padre e a sua madre mentre osservava Massaua scivolare lontana. In verità, a chi si trovi a viaggiare di notte, al buio, partendo da un porto, pare che sia la terra a scostarsi da esso, abbandonandolo, e non la nave. Alla vista della terra dei suoi antenati che si allontanava veloce fu assalito nuovamente da una profonda malinconia e, sopraffatto improvvisamente dalle lacrime, si mise a mormorare:
«Addio terra mia natia che mi hai cresciuto sulle tue distese verdeggianti, sulle tue ambe apriche! Addio mie lande solitarie dove ho trascorso le notti, con il mio bestiame e i pastori».
Dando un’occhiata alla più generica traduzione in inglese9 del romanzo di Ghebreyesus Hailu, mi sono chiesta se dietro l’immediata familiarità di queste ultime due frasi ci sia solo una scelta autoriale (lo scrittore, formatosi nelle istituzioni ecclesiastiche vaticane, conosce bene la letteratura italiana) o un intervento avveduto del traduttore. Sia come sia, in queste poche parole riconosciamo senza dubbio l’Addio ai monti di Lucia Mondella nei Promessi Sposi e la chiusa de I pastori di Gabriele d’Annunzio (“Ah perché non son io co' miei pastori?”). A livello lessicale, colpisce anche la selezione dell’aggettivo “apriche” (luminose), desueto e arcaizzante, per riferirsi alle ambe, gli altopiani tipici del paesaggio etiopico: il mio primo pensiero è stato per il testo della Leggenda del Piave, quando, dopo Caporetto, il nemico austriaco osserva il “piano aprico”, cioè la Pianura Padana. Attraverso i riferimenti al romanzo fondativo di Alessandro Manzoni, ambientato durante la dominazione spagnola di Milano, e all’inno composto da E.A. Mario, incentrato sulla lotta contro la dominazione austriaca nel Nord Est, L’ascaro intesse nella propria trama il periodo in cui estese zone di ciò che si sarebbe unificato nel Regno d’Italia erano asservite a interessi stranieri; adesso il Regno d’Italia impone ciò che ha subito ad altri, con una violenza rafforzata dalla convinzione razzista che si tratti di esseri umani inferiori.
Così Tequabo e i suoi compagni lasciano le loro terre e le loro case. Durante il viaggio in nave, a differenza degli ufficiali italiani ai quali sono riservate le cabine, rimangono sul ponte. Queste pagine di ispirazione autobiografica sono tra le più belle del romanzo:
La luna, una volta sorta, completamente rivestita di un colore giallastro opaco, aveva finito con ingiallire l’acqua del mare. Questo, a sua volta, al pari di un animale domestico che reagisce grato alle carezze arruffando il pelo, rispondeva con lo sciabordio delle sue onde. Dopo poco, la luna prese le parvenze del qolo10 e, abbandonate le tinte opache che aveva indossato poc’anzi, illuminò vividamente il mare. Mentre la luce illuminava la nave e gli ascari, e il loro vascello avanzava nel mare, ai soldati pareva che la luna procedesse allo stesso ritmo dell’imbarcazione, quasi vi fosse legata da una fune invisibile. Alla vista di quello spettacolo i figli d’Etiopia, in particolar modo quelli non avvezzi al mare, rimasero a bocca aperta. Pareva loro di sognare.
Per i giovani ascari, questo viaggio è anche occasione di osservare luoghi nuovi, usi e costumi lontani dai loro: scoprono Port Sudan e la popolazione locale, Suez e i venditori egiziani con le loro merci, Port Said, e infine il “mare di Roma”, con Alessandria, città da cui l’apostolo Marco cominciò l’evangelizzazione del continente africano. Seguiranno poi la costa mediterranea fino a Derna, in Libia. Si avvicina l’ora della battaglia.
Gli ascari non sono abituati alla sabbia del deserto libico, diversa da quella che arriva fino al loro paese natale trasportata dal vento; sono dotati di calzature insufficienti e inadatte; sebbene informati dalla propaganda italiana riguardo la presunta indolenza dei libici, in realtà si trovano di fronte un avversario pronto a tutto per difendersi dagli invasori. Il caldo è insopportabile e la sete diventa una consuetudine. Gli ufficiali italiani, senza grandi remore, abbandonano i sottoposti.
Questa fase del romanzo, che occupa il terzo capitolo e l’inizio del quarto, non proviene dall’esperienza personale dell’autore, bensì, scrive Ghebreyesus Hailu nel prologo, dalla commistione dei racconti “dei miei fratelli arruolatisi nell’esercito coloniale”.
Tequabo riuscirà a sopravvivere e a tornare a casa, con la consapevolezza amara di aver combattuto non per la salvezza della sua patria, come i libici, ma per uno Straniero.
Anche se il romanzo esce per la prima volta nel 1950, la data di composizione risale al 1927; in quei ventitré anni, ci sono le atrocità commesse dall’Italia fascista in Libia e in Etiopia, gli anni della Seconda Guerra Mondiale e gli accordi del settembre 1943, che garantiranno all’ex Regno dei Savoia un trattamento non troppo duro nelle successive conferenze di pace. L’unica conseguenza seria per la nuova Italia repubblicana, oltre all’amministrazione controllata di Trieste da parte degli Alleati e al doloroso esilio delle popolazioni giulio-istriane, sarà la perdita di tutte le colonie.
Sottolineavo la singolarità dell’esperienza di cui parla Deviazione, vicinissima al vissuto dell’autrice (da cui si discosta solo per le prevedibili differenze che ci sono tra il vivere un’esperienza e lo scriverne); L’ascaro, invece, vuole rappresentare una vicenda collettiva attraverso una narrazione esemplare. Tequabo Medhanie Alem è il personaggio grazie al quale Ghebreyesus Hailu rende più sentiti i fatti narrati, ma spesso preferisce allargare l’inquadratura, passando da un ritratto individuale a un quadro di gruppo.
Il procedere misurato de L’ascaro è lontano dagli strappi di Deviazione e lascia trasparire le letture religiose che caratterizzano la formazione di un ecclesiastico; in particolare, la nascita di Tequabo, gioia di due genitori avanti con gli anni, ricorda l’inaspettato concepimento di Giovanni Battista da parte degli anziani Elisabetta e Zaccaria. Oltre alle risonanze tematiche, il romanzo di Ghebreyesus Hailu condivide un altro punto in comune con il testo di Luce D’Eramo: sia Reka che teme per la vita del figlio appena nato, sia Lucia durante la convalescenza, vedono Cristo in un sogno premonitore. Va detto, però, che L’ascaro non intende fare proselitismo religioso: come ogni scrittore, Ghebreyesus Hailu usa le proprie influenze e le proprie letture per raccontare una storia; il suo Ascaro, “una pietra miliare della letteratura contemporanea in lingua tigrina” secondo Uoldelul Chelati Dirar, è un contributo essenziale alla costruzione e alla trasmissione di una memoria comune.
Le immagini utilizzate nella sezione dedicata a Deviazione sono tratte da La caduta degli dèi di Luchino Visconti11; la mappa che compare nella sezione de L’ascaro proviene da Storia del colonialismo italiano, mentre la fotografia è di Federico Patellani.
L’immagine di copertina è una gouache di René Magritte.
Oltre ai libri citati nel testo o nelle note, mi sono stati utili: Storia globale dell’Italia (Laterza, a cura di Andrea Giardina); l’intervista a Luce D’Eramo contenuta in Conversazioni di fine secolo (La Tartaruga, a cura di Iaia Caputo e Laura Lepri); il suo scritto in Quella febbre sotto le parole (Iacobelli Editore, a cura di Maria Rosa Cutrufelli); questo articolo di Daniella Ambrosino riguardo Deviazione; questo articolo di Enrico Sturani su Immagine Cultura riguardo Publio Mangione, il padre di Luce D’Eramo.
Ci tengo a sottolineare anche qui la qualità e la profondità dell’introduzione di Uoldelul Chelati Dirar a L’ascaro, molto di più di una semplice nota al testo: una vera guida.
Grazie ad Andrea per la revisione del testo.
L’altra biblioteca torna con la rubrica Laboratorio il 21 maggio, e con un’altra uscita come questa il 4 giugno.
Snodo cruciale tra l’Italia e i paesi di lingua tedesca, è anche il luogo dove pochi mesi prima è stato giustiziato Galeazzo Ciano, ministro degli Esteri e genero di Benito Mussolini, che aveva votato per l’esautorazione del dittatore nel luglio 1943.
Ricordo anche il carcere sull’isola di Nocra, al largo di Massaua, dove l’Italia coloniale deteneva in condizioni disumane gli eritrei e, in seguito, gli etiopi che si ribellavano al suo dominio. Costretti ai lavori forzati nelle cave di pietra, con temperature che raggiungevano i 50°, pochissimi sopravvivevano. Se ne può leggere in Isole Carcere - Geografia e storia di Valerio Calzolaio (Edizioni Gruppo Abele).
Alberto Arbasino ha ripetuto in varie occasioni un aneddoto significativo: per riferirsi ai piedi, era giudicato più fine usare il termine “estremità”. Oppure: nel romanzo Barbara di Marise Ferro, uscito nel 1934, le suore del collegio che frequenta una delle due protagoniste si scandalizzano quando un’allieva osa dire “j’ai mal à la cuisse”, menzionando una parte del corpo scandalosa, cioè la coscia.
Saint-Simon credo non usi mai la parola di Cambronne nelle sue Memorie, però gli capita di parlarne, anche quando si tratta di Luigi XIV.
Ne L’altra Resistenza (Einaudi), Alessandro Natta dice che, su più di seicentomila soldati detenuti nei lager, a scegliere la Repubblica Sociale “non furono più di diecimila uomini, e altrettanto trascurabile fu il numero di coloro che in qualche modo accettarono di collaborare”: se questi dati sono affidabili, si tratta di meno del 10%.
Scrittura dell’anima nuda. Taccuini 1976-1992 (Einaudi).
In Storia del colonialismo italiano (Carocci), Valeria Deplano e Alessandro Pes fanno risalire i primissimi contatti agli anni ‘30 del XIX secolo; scelgo l’episodio di Rubattino perché uso come discrimine la data del 17 marzo 1861, in cui nasce effettivamente lo Stato italiano moderno. A proposito: a Raffaele Rubattino appartengono anche i piroscafi Lombardo e Piemonte con cui Garibaldi concretizzò la Spedizione dei Mille.
La colonizzazione italiana della Libia causerà la morte di circa centomila libici, su una popolazione di circa otto milioni di persone. La fonte è Storia del Nord Africa indipendente di Caterina Roggero (Bompiani).
Dal glossario alla fine de L’ascaro: strumento musicale con cinque o sei corde, simile alla lira, accordato su scala pentatonica.
Da The Conscript (Ohio University Press), nella traduzione di Ghirmai Negash: “O my country that raised me in its green land and beautiful hills, I say farewell to you. The entire field that I once lived in with my cattle and shepherds... I say farewell to you.”
Sempre dal glossario alla fine de L’ascaro: orzo o ceci tostati, normalmente offerti in occasioni conviviali per accogliere gli ospiti o come accompagnamento di bevande alcoliche.
Nel film di Visconti la fabbrica degli Essenbeck ovviamente lavora l’acciaio, visto che sono modellati sui Krupp, non è un’industria chimica come la IG Farben. Ne sono consapevole. Sono altrettanto consapevole del fatto che la ὐ non è uniformata al resto della parola αὐτοψία, ma non voglio scriverla senza spirito, quindi tento di farmene una ragione.