LAB 52: La famiglia Berg di Lydia Sandgren
Un editore al bivio, una storica scomparsa, un pittore tormentato, una studentessa sperduta.
MARTIN BERG: Bisogna ricordarsi che la finzione è sempre finzione.
INTERVISTATORE: Può dirci qualcosa sulla relazione della finzione con l’esperienza vissuta?
Nel tardo inverno del 2012 per l’editore Martin Berg si avvicinano due traguardi importanti: il venticinquesimo anniversario della casa editrice da lui fondata e il compimento dei cinquant’anni. Ne sono passati quindici esatti dalla scomparsa di sua moglie Cecilia.
La famiglia Berg non è un libro incentrato su un femminicida; Cecilia Berg non è morta, se n’è andata e basta, lasciandosi alle spalle soltanto una lettera e un’assenza.
L’esordio di Lydia Sandgren, nata a Göteborg nel 1987, risale al 2020 ed è stato tradotto in italiano da Andrea Stringhetti per Mondadori nel 2021. È facile immaginare il pubblico svedese durante i confinamenti pandemici, catturato da questo romanzo avvolgente il cui andamento a spirale si concentra sempre di più mentre si avvicina alla fine per rispondere alla domanda: perché Cecilia Berg è sparita, allontanandosi dal marito e abbandonando i due figli, e dove si trova ora?
Molti noir1 cominciano con la scomparsa di una donna, e in effetti la scomparsa di Cecilia Berg è un mistero. Lydia Sandgren, a cui la stesura del romanzo ha richiesto quasi un decennio, depotenzia e inverte questo stilema intrecciando tre linee temporali: il presente di Martin Berg e il presente di sua figlia Rakel, contemporanei; e il passato ricordato dall’editore, la sua crescita a Göteborg e l’incontro con le due persone che per lui significheranno di più, Gustav Becker e Cecilia Wikner.
Gustav è arrivato nella vita di Martin il primo giorno di scuola, all’inizio del liceo, quando chiede all’insegnante di cassare il “von” che ne suggerisce le origini aristocratiche. Da lì in avanti, sull’elenco dell’appello Becker è accanto a Berg. Entrambi si distinguono dai compagni per l’abbigliamento: tra i coetanei figli-di-papà in maglione a V, Martin sfoggia una giacca di jeans e Gustav è vestito di nero dalla testa ai piedi, con un cappotto militare blu scuro. Becker e Berg legano subito anche grazie alle rispettive inclinazioni artistiche, il disegno e la letteratura. La scelta di iscriversi alla Hvifeldtska e l’amicizia con Gustav rappresentano per Martin anche il primo allontanamento, sebbene inconscio, dal suo ambiente di nascita piccoloborghese.
Il futuro editore legge Jack di Ulf Lundell, libro di culto per i giovani scandinavi degli anni ‘70 (viene menzionato anche da Karl Ove Knausgård, che fa parte all’incirca della stessa generazione, nell’esalogia La mia battaglia), poi Tolstoj, Sartre, e Giorni di Patagonia di un certo William Wallace, uno scrittore coetaneo di Hemingway. È un ragazzino di buone letture, tuttavia è evidente che il suo slancio è tiepido, più velleitario della vocazione di Gustav verso la pittura. Alla fine del liceo, Martin si iscrive a filosofia, mentre Gustav continua gli studi all’accademia d’arte Valand. Vanno alle feste, si ubriacano, stanno male per il troppo alcol, Martin ha delle ragazze, mentre Gustav rimane sempre molto riservato riguardo la sua vita privata. Il primo, figlio di una bibliotecaria e di un ex marinaio che ora ha un buon lavoro in tipografia, ha sempre il suo impiego estivo alle poste; il secondo passa i mesi di vacanza vicino ad Antibes, dove la nonna — della quale è il nipote preferito — lo ospita in una villa di sua proprietà.
Vilhelm Hammershøi
Mentre sono ancora così giovani, possiamo già osservare alcuni tratti fondamentali delle rispettive personalità: Martin sa affrontare le crisi tangibili, ma è incapace di andare davvero in profondità; Gustav frappone sempre una barriera fra sé e gli altri, e prima di tutti, prima di tutto, c’è la ricerca della sua pittura.
Gustav tornò alla Valand ed ebbe uno dei suoi scontri con “la pittura come teoria e pratica”, un’espressione che probabilmente proveniva da Sandor Lukács, con i suoi baffi alla Frank Zappa.
[…] Certo, l’olio era il suo campo. Con l’olio era bravo. Di per sé non era una cattiva idea sviluppare quello in cui era bravo. E aveva pensato a una roba in stile Rembrandt con Cecilia in giacca nera e colletto bianco, in cui la struttura in nero sarebbe risultata tridimensionale. Ma a una riflessione più approfondita si domandava se fosse un’idea sua o se l’avesse fregata dagli autoritratti di Nerdrum, che ovviamente erano ben eseguiti ma – Gustav fece un tiro e scosse la testa – con uno sguardo troppo nostalgico rivolto al passato. Un miscuglio. Del resto che importanza aveva se era una sua idea oppure no, visto che Nerdrum ci era arrivato per primo?
Nel frattempo aveva provato ad aggirare il problema dei ritratti semplicemente lasciando perdere le persone. Svuotò una cartelletta sul divano dove era seduto Martin e tentò di aprire una bottiglia di vino con l’aiuto di un martello e di un chiodo perché qualcuno si era appropriato del cavatappi. Erano schizzi degli interni dell’atelier.
«Ho disegnato il mio maledetto atelier. È come ritrarsi l’ombelico. No? È da narcisisti. Sono immagini rivolte all’interno di se stessi. E nel caso in cui me lo fossi perso, siamo nei primi anni Ottanta del Novecento, non dell’Ottocento. Qualcuno può teletrasportarmi indietro di cent’anni? Lasciatemi dipingere donne che leggono in stanze luminose nel secolo giusto, cazzo.»
La loro è un’amicizia totalizzante: ha ragione un personaggio secondario — che in un primo momento li scambia per una coppia — nel dire, alla fine del romanzo, che ognuno dei due rimaneva emotivamente il primo per l’altro. Finché Martin, mentre scrive una tesi su Wittgenstein, non conosce Cecilia Wikner, una studentessa di storia interessata al colonialismo italiano in Etiopia, dove ha vissuto da bambina mentre il padre medico gestiva un ambulatorio locale.
L’amicizia tra Gustav e Martin è forte quanto l’amore tra Cecilia e Martin, anzi, allarga le sue maglie e riesce a includere anche lei. Quando i tre passano un’estate insieme nella villa di Antibes, gli equilibri sono così perfetti da sembrare millenari: si lavora, ciascuno al proprio progetto (i quadri di Gustav, il saggio di Cecilia, il romanzo di Martin); si nuota, si sta in spiaggia, si mangia, si gira; si sta insieme. Questo sodalizio esemplare è l’età dell’oro alla base della Suite di Antibes, la serie di quadri che impone il giovane pittore Gustav Becker.
Da qui in avanti, i tre si allontaneranno e si avvicineranno a intervalli irregolari: Martin e Gustav trascorrono un anno a Parigi insieme al comune amico Per, Martin torna a Göteborg e Cecilia rimane incinta, Martin fonda la casa editrice Berg&Andrén con Per, Cecilia continua a studiare, Gustav va a vivere a Stoccolma, poi parte per Londra, Cecilia traduce i diari di Wittgenstein per la Berg&Andrén…
Il presente del 2012, quindi, a Martin non può che apparire esangue rispetto alla giovinezza. Non ha mai finito di scrivere quel romanzo, però è un uomo tutto sommato di successo, sebbene la Berg&Andrén non sia certo la Albert Bonniers Förlag. Capita che abbia qualche storia senza importanza. Ha tirato su due figli senza commettere sbagli enormi: sì, Elis è nella sua fase di adolescente pretenzioso e distante, ma la ventiquattrenne Rakel sembra davvero la candidata ideale per prendere, un giorno, le redini della casa editrice. Molto utile anche la sua conoscenza del tedesco, che ha perfezionato grazie a un anno trascorso a Berlino — dove ha davvero studiato, mentre i coetanei si dedicavano ad altri passatempi.
Ola Billgren
A differenza del breve e fatuo Noi tre di Johanna Hedman (Frassinelli, traduzione di Stefania Forlani), altro romanzo di un’esordiente svedese che ha al centro il rapporto complesso tra tre persone, Lydia Sandgren si prende tutto il tempo necessario per rappresentare le correnti di affetto, avversione, attrazione che si muovono tra Martin, Gustav e Cecilia: gli anni si accumulano sugli anni, i silenzi a volte vengono squarciati e a volte si incancreniscono, frasi e sintagmi ritornano in contesti diversi (per esempio, “di un’altra categoria”).
Il pontile aveva scricchiolato sotto di loro. «Se tu potessi scegliere» aveva detto Cecilia sedendosi sul bordo «tra una vita eterna nel Paradiso dell’ignoranza o la conoscenza al prezzo di una vita mortale di lavoro sulla terra, cosa preferiresti?» Aveva immerso i piedi nell’acqua. Sotto la superficie la pelle pallida aveva lo stesso colore dell’ambra.
«Il lavoro sulla terra» aveva risposto Frederikke.
«Anch’io. Gustav sceglierebbe sempre il paradiso. Martin… difficile dirlo con Martin. Starebbe con un piede in ogni scarpa senza riuscire mai a decidersi.» Era rimasta un momento in silenzio. «È una maledizione: essere incinta, partorire, desiderare il proprio marito. Tutto questo come punizione per la fame di conoscenza.»
Lydia Sandgren, che lavora come psicologa, non riprende il cosiddetto trauma plot che caratterizza molti romanzi contemporanei. Come scrivevo all’inizio, La famiglia Berg non racconta la vicenda di un femminicidio, non include scene di gravi abusi familiari o tra partner, nessun personaggio subisce traumi indicibili. L’eccentrica famiglia Wikner manifesta la sua asfissiante tendenza alla prevaricazione solo attraverso episodi laterali, riuscendo poi lo stesso a dimostrarsi fondamentale nell’assistere Cecilia dopo la difficile seconda gravidanza.
Del resto, la sofferenza arriva lo stesso, è connaturata al vivere. Sandgren opera attraverso minime incisioni epidermiche che solo col passare delle pagine si rivelano essere tagli e amputazioni.
Eugène Jansson
All’inizio del romanzo, Rakel Berg attraversa un periodo difficile. Sta per concludere l’università e non ha ancora del tutto superato la fine di una relazione. È sempre più difficile alzarsi dal letto la mattina, mangiare è una fatica inutile, e poi suo padre le ha chiesto di dare un’occhiata a un libro tedesco dal titolo sdolcinato, Ein Jahr der Liebe, un anno d’amore. Se la crescita di Martin si basa sulla costante rifrazione con Gustav e Cecilia, il racconto di formazione di Rakel è soprattutto interiore. Sarà la lettura di Ein Jahr der Liebe ad attivare il movimento in avanti della sua vita, tramite una paradossale deviazione nel passato: Rakel ha bisogno di trovare sua madre. Anche lei, come Telemaco, ha un genitore vivo ma lontano, e uno in attesa.
La gente si concentrava troppo sulle risposte. Come se potessero risolvere qualcosa. L’unico modo per andare avanti era attraverso una nuova domanda, e ogni domanda conduceva ad altre, oppure ne conteneva tantissime più piccole al suo interno, e inoltre bisognava porre domande sulle domande stesse. Ci sono molte domande da porre sulla domanda “come ha potuto abbandonare i suoi figli?”. Non era una domanda priva di problemi. Per esempio, la si poneva in un ordine sociale patriarcale e in un contesto in cui vari aspetti venivano dati per scontati. Quali erano questi aspetti? Probabilmente che rispetto agli uomini le donne erano sentimentalmente più legate ai figli. […] Ne stavamo parlando dal punto di vista biologico o da quello sociale? Da quello biologico: esisteva un gene particolare? Era un dato certo o un’ipotesi? E poi i geni possono spiegare tutto? Dal punto di vista sociale: se dipendeva dalla società il fatto che le donne erano ritenute più legate ai figli rispetto agli uomini e quindi meno inclini ad abbandonarli e scappare sulle note di Born to run, allora questo sentimento era una costruzione sociale, e se era costruito si poteva immaginare che venisse fatto a pezzi e messo in discussione e magari anche trasformato in qualcos’altro. Con tutte queste inesauribili domande che si inanellavano, chiedeva Rakel, cosa era possibile capire?
Se alcune coincidenze compaiono anche nella storia trinaria di Martin, Gustav e Cecilia, è nella linea temporale dedicata a Rakel che troviamo quelle più romanzesche e forse difficili da accettare. Sandgren non la nasconde dietro inutili ambiguità, dunque sta a chi legge decidere se firmare il patto con la scrittrice. Sul piatto della bilancia a favore de La famiglia Berg troviamo: la vividezza dei personaggi, lo sguardo disincantato nei confronti delle relazioni, il senso dell’umorismo, e l’evidente piacere autoriale nel narrare. Da un punto di vista più tecnico, Sandgren sa muovere la trama tra presente e passato con un’abilità non scontata per un’esordiente.
La sinossi italiana parla di un grande romanzo europeo. Meglio conservare un po’ di scetticismo, anche se c’è qualcosa di vero: i personaggi principali, sempre ancorati alla Svezia, si muovono verso Parigi, la Costa Azzurra, Berlino e Londra. Ma è il ritratto del secondo centro e principale porto svedese ad avermi conquistato: Gustav e Martin qui macinano chilometri, frequentano bar e locali, e registrano i cambiamenti nel corso dei decenni. Stoccolma ha un ruolo defilato, è un non-luogo impersonale. Lydia Sandgren ha dichiarato di essere influenzata dall’opera di Hjalmar Söderberg, ambientata nella capitale a cavallo tra XIX e XX secolo, e di aver cercato di rendere omaggio alla sua città natale nello stesso modo. Il tentativo è riuscito: la sua Göteborg diventa un essere vivente quanto i personaggi del romanzo.
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Panorami (ovvero: quali altre opere mi ha fatto venire in mente questo libro?)
Troppe? L’idea poco originale che ha Martin per il racconto del Regista e dell’Attrice mi ha fatto pensare a Kärlek 65 di Bo Widerberg. Il rapporto tra Martin e Gustav mi ha ricordato le coppie di amici al centro di due bei film, Reprise di Joachim Trier (scrittore/scrittore) e Il cielo brucia di Christian Petzold (scrittore/fotografo), e del romanzo L’opera di Émile Zola (scrittore/pittore, modellati su Zola stesso e Paul Cézanne), che ho tentato di leggere l’autunno scorso, quando stavo troppo male — potrei riprovare quest’estate.
Infine, una canzone per niente cool dei Kent che ascoltavo spesso tanti anni fa.
Altro?
Vorrei che Lydia Sandgren non avesse usato il nome “William Wallace” per il suo scrittore fittizio a metà tra Joyce e Chatwin: l’involontario rimando a Braveheart è fastidioso! Molto più fastidiosi, però, sono stati i numerosi errori di stampa.
A febbraio è uscito I dettagli di Ia Genberg (tradotto da Alessandra Scali per Iperborea), che mi è parso piuttosto reclamizzato in luoghi e da persone che definirò più letterari di questa newsletter. Non è un brutto romanzo, ma è un tipo di testo di cui sono stanca e a cui ormai ho dato abbastanza — anche la Legione Straniera consente di lasciare il corpo dopo cinque anni. Lo menziono per riportare un particolare interessante, visto che ovviamente i premi hanno sempre un peso nelle traduzioni: I dettagli ha vinto il premio August nel 2022, La famiglia Berg nel 2020.
Laboratorio torna tra due settimane, il 15 maggio. A giudicare dai numeri che mi fornisce Substack, la prima uscita sembra essere stata apprezzata.
Grazie ad Harald per avermi suggerito per tutto l’autunno del 2023 La famiglia Berg.
Grazie a mio fratello per la spiega sul porto di Göteborg.
Grazie al paziente Andrea per la revisione del testo.
Due esempi per tutti: da Il falcone maltese di Dashiell Hammett (1930) a L’amore bugiardo di Gillian Flynn (2012).