LAB 41: La figliastra di Caroline Blackwood
La figliastra — Caroline Blackwood
Codice Edizioni; traduzione di Gian Ugo Ozieri.
La figliastra è Renata; la sua matrigna, che racconta l'intera vicenda, si chiama J. (K. nella prima edizione). Questo specifico rapporto familiare non basato sul sangue — a giudicare dai due suffissi peggiorativi -astra e -igna in italiano, nonché dalla trama di molte fiabe — non è mai stato visto sotto una luce positiva: una bambina/ragazzina e una donna più o meno giovane non sembrano destinate a un'intesa, se il loro unico punto di contatto è costituito dall'uomo che ha procreato la prima e sposato la seconda.
La trama de La figliastra, breve romanzo del 1976 con il quale la scrittrice e giornalista angloirlandese Caroline Blackwood (1931-1996) ha esordito nella narrativa, procede tramite una serie di lettere che J. scrive nella sua mente a destinatari senza nome.
Da settimane ormai me ne sto seduta nel mio appartamento, che offre una vista magnifica sullo splendore e lo squallore di Manhattan, e scrivo lettere nella mia testa…
Caro Tal dei Tali...
Sono rimasta tutto il giorno alla finestra a contemplare la bellezza frastagliata e strana della città, con il suo spettacolare zigzag di palazzi alti e bassi. Ho guardato in basso le strade brulicanti di macchine simili a insetti psicotici che gareggiano con il lento corso dell'Hudson. Da qui riesco a vedere dall'altra parte del fiume la macchia marrone degli edifici, che sembrano estendersi sulla linea dell'orizzonte in un'infinita espansione urbana. Quando Arnold e io abitavamo in quella topaia al pian terreno sull'Ottantaduesima ogni tanto mi lamentavo, gli spiegavo che non ero quel tipo di persona che può sentirsi viva in stanze che si affacciano tutte su un opprimente muro giallastro. Gli dissi che avevo bisogno dell'illusione di vedere le cose dall'alto. Arnold è un uomo intelligente, e come molti uomini intelligenti a volte può essere crudele. Cosa c'è di più crudele del prendere in parola qualcuno?
Questo scambio epistolare a senso unico è tutto quel che J. può fare per mantenere la calma mentre cerca di metabolizzare una recente catastrofe: è stata abbandonata dal marito Arnold, un avvocato di successo, in compagnia non solo di Sally Ann, la loro figlia, e di Monique, la ragazza alla pari francese, ma anche di Renata, una tredicenne frutto delle precedenti nozze di Arnold. Da reggia, l'appartamento si trasforma in una gabbia dorata; poi, quando è ormai impossibile continuare a indorarne le sbarre, in una prigione.
Dalle lettere di J. non viene fuori molto della sua vita: ha qualcosa in più di trent'anni, è la seconda moglie di Arnold e ha un certo talento per la pittura (in apparenza più utile a darle un passatempo che una reale vocazione artistica). Ha arredato l'appartamento con un buon gusto che la rende molto orgogliosa di sé:
Il soggiorno, con la sua giungla di piante da appartamento che dovrebbero dare la sensazione di essere circondati dalla natura, con i colori sgargianti dei tappeti afgani, in un contrasto perfettamente calcolato con la candida iuta del divano che dopo giorni e giorni di indecisione avevo scelto insieme ad Arnold, con le riproduzioni di Rouault, Matisse e Klee, che come Notre Dame des Fleurs di Genet giacevano disinvoltamente trascurate sul tavolino, a dimostrazione del fatto che la stanza è la creazione di una persona sofisticata, moderna e raffinata...
Si intuisce che J. sia bella dal suo essere una seconda moglie e dai costanti commenti su Renata: verso la figliastra ha un atteggiamento tanto ossessivo a proposito dell'aspetto fisico quanto negligente riguardo il benessere di una ragazzina sotto la sua tutela. E Arnold non si interessa di sua figlia? Beh, Arnold è a Parigi con la nuova compagna, prendersi cura di Renata è il prezzo che la narratrice deve pagare per continuare a essere mantenuta.
Renata è il contrario di quanto J. vorrebbe avere intorno: brutta, sgraziata, sovrappeso, passiva, malvestita, sporca, poco interessata alla scuola, fissata con il preparare e mangiare esclusivamente tremendi muffin.
Quando Arnold partiva non facevo che pensare ossessivamente alla stanza occupata da Renata. Era l'unica in cui avrebbe potuto dormire una ragazza alla pari, o l'unica che avrei potuto usare come studio per dipingere. Nella mia mente quella camera si ingigantiva a tal punto da farmi impazzire di rabbia, come se Renata avesse occupato tantissime stanze, stanze che io avrei potuto sfruttare molto meglio. Mi ritrovai a contare i giorni e gli anni che mancavano al momento in cui Renata sarebbe stata abbastanza grande per andarsene di casa. Era improbabile che riuscisse a entrare al college, e non riuscivo nemmeno a immaginarla svolgere i lavori più umili. Inutile anche riporre le speranze in un matrimonio precoce, anche se cercavo di tirarmi su guardando le fotografie di brutte spose novelle pubblicate sui giornali. Abbiamo solo una vita a disposizione, e anche nei miei momenti più ottimistici mi era impossibile immaginare il tipo di uomo che avrebbe scelto di passare la sua unica, preziosa vita insieme a Renata.
L'attenzione morbosa che J. dedica al corpo della figliastra ha l'aggressività di un certo tipo di sguardo femminile che sorveglia le altre donne, anche se ancora giovanissime, con una ferocia identica a quella rivolta verso di sé. Renata rappresenta ciò che J. teme di essere, dunque J. può soltanto rifiutarla.
Caroline Blackwood attribuisce il potere che deriva dal narrare una storia a un personaggio antipatico, a tratti abusante, e il successo di questa scelta dimostra il suo talento letterario: ne La figliastra la realtà della situazione riesce a filtrare anche se la prospettiva di J. rimane l'unica modalità di accesso ai fatti. Lontana da pietismi, l'autrice lavora per accumulo finché chi legge non si rende conto che J. ha a che fare con una ragazzina traumatizzata, sola e depressa, verso cui continua a reagire con un disgusto nevrotico finché non si siede con lei a parlare. In quel momento J. riesce a vedere la vera Renata: riflessiva, orfana di una madre difficile, timorosa di essere un peso per il padre e chi le sta accanto.
Martha Weller è l'unica persona della cerchia amicale di J. che dall'esterno penetra in questo piccolo mondo claustrofobico ed è attraverso di lei che il femminismo si inserisce nella storia. Però dal punto di vista della narratrice non si tratta di una cornice ideologica che potrebbe portarle una misura di emancipazione:
Martha Weller è la mia migliore amica qui a New York, e io l’ho offesa inventandomi una scusa dopo l’altra per non vederla. Negli ultimi tempi è diventata una femminista militante, e ho paura della condanna implacabile che riserverebbe alla mia situazione. Nel tentativo di aiutarmi a riconquistare nuova fiducia in me stessa come donna, finirebbe per strappare i brandelli a cui ancora mi aggrappo. Per farmi guardare al futuro si sentirebbe in obbligo di distruggere il mio passato, che in questo momento è tutto ciò che sento di possedere.
Così la castellana del lussuoso appartamento di Manhattan si crogiola nell'isolamento, nell'egocentrismo e, quasi fino alla fine, nel disprezzo per la figliastra. Si prova gratitudine per la brevità del libro perché la mente di J. non è un luogo gradevole dove sostare a lungo, ma allo stesso tempo, grazie alla sua capacità affabulatoria, non è privo di fascino: è facile immaginare di ridere con lei mentre, durante una festa un po' noiosa, fa battute cattive sui presenti, magari svelandone sofferenze e fragilità. Qualche ora dopo però, una volta a casa, potrebbero farsi strada una sensazione di sporcizia interiore e l'impressione di aver osservato le persone di prima attraverso una prospettiva limitata e crudele.
J. è il primo ma non l'unico personaggio femminile mostruoso di Caroline Blackwood: l'inflessibile bisnonna in Mrs. Webster (Elliot, traduzione di Elena Bollati) o la maniacale Cressida in The fate of Mary Rose testimoniano un continuato interesse nell'esame di psicologie muliebri insolite e talvolta maligne. Sono figure grottesche che si contrappongono a personaggi maschili sinistri e spesso assenti, uno schema narrativo in parte ispirato dalla tormentata vita familiare di una “povera ragazza ricca”: un nobile angloirlandese morto in giovane età per padre, un'ereditiera Guinness con problemi psicologici per madre, un'infanzia precaria in balia di tate e familiari indifferenti.
Del resto, Caroline Blackwood stessa conosceva i lati oscuri della maternità, reale o per interposta persona: nella biografia Dangerous Muse di Nancy Schoenberger diversi amici della scrittrice sostengono che la trama del romanzo sia una trasfigurazione del suo difficile rapporto con la primogenita, morta di overdose nel 1978. Non è forse casuale che l'inconsueto nome della figliastra, Renata, riecheggi quello delle tre figlie di Blackwood, Natalya, Evgenia e Ivana, alle quali, insieme al figlio Sheridan, è dedicato il romanzo.
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Panorami (ovvero: quali altre opere mi ha fatto venire in mente questo libro?)
Oh, oggi è uno di quei rari casi in cui posso farla breve e dire: no, non c'è niente.
Altro?
Le fonti di questa uscita sono la biografia Dangerous Muse di Nancy Schoenberger e il saggio Of Caroline Blackwood di Gary Indiana, incluso nella raccolta Utopia's Debris. Nessuno dei due libri è tradotto in italiano, così come The fate of Mary Rose di Caroline Blackwood.
C'è un bel pezzo del 2001, scritto da Jenny Diski per la London Review of Books, su Blackwood e sulla biografia di Schoenberger.
L'uscita su Balzac della quale mi lamento da mesi sarà la prossima, ormai non mi resta che rileggere i due romanzi di cui voglio parlare. Si dovrebbe intitolare Honoré de Balzac e le donne superiori (la definizione è sua!). Peccato non aver fatto in tempo prima perché La figliastra sarebbe stata una selezione... divertente per maggio, il mese della festa della mamma.
Forse sai che da un po' di tempo mi frulla in testa l'idea di Affettati, una newsletter in cui mi occuperei di letteratura italiana contemporanea, dalla quale mi sento spesso alienata. Per squisite ragioni di tempo, se partirà, potrà partire solo una volta che LAB sarà giunta alla cinquantesima uscita, ergo più o meno l'anno prossimo. A differenza della sorella maggiore, Affettati troverà spazio per opinioni positive, negative e neutre.
C'è qualche titolo del quale ti interesserebbe sapere la mia impressione? Puoi scrivermelo qui.
Criteri: no autopubblicati, no libri di genere (nemmeno gialli).
Una precisazione: Affettati non vuole essere un baluardo di malignità né di bontà, ciascun libro sarà letto in maniera equanime. Se il progetto partirà.
Ringrazio Andrea per la revisione del testo.
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Puoi trovarmi su Twitter.
Ci risentiamo il 4 maggio, se ti andrà.
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